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Lettere alla redazione |
16 febbraio 2004 - segnalato da Gian Piero Leo
In un precedente numero di Controvoci, la nostra redazione curò un articolo su don Vitaliano Della Sala, puntando l’attenzione su un modello di Chiesa vicino alle persone più deboli, agli indifesi, agli emarginati. Un modello di chiesa in alcuni casi eccessivo, ma comunque vero, forte, necessario, che nella stessa chiesa ha trovato ostilità, diffidenza e chiusura. Ecco un’ampia panoramica su Don Vitaliano, il prete no-global che impersona più di ogni altro questo modello, tratta da Jesus, rivista della “Periodici San Paolo”.
(tratto
da Jesus/febbraio 2004 di Giovanni Ferrò e
Luciano Scalettari)
È stato definito il prete no-global: contestatore in tonaca, cappellano dei “centri sociali”. Eppure, tutte le etichette precotte calzano male addosso a don Vitaliano Della Sala: forse perché si tratta solo di un parroco, senza altri aggettivi, che è riuscito a far incontrare il suo borgo di montagna con il mondo.
Don Vitaliano Della Sala è nato 40 anni fa a Mercogliano (Av), diocesi di Montevergine. Sacerdote dal 1992, è stato rimosso dalla funzione di parroco di Sant'Angelo a Scala il 22 novembre 2002 e da allora non ha alcun incarico pastorale. Montevergine è una circoscrizione ecclesiastica particolare: si tratta infatti di una "abbazia territoriale", nata storicamente intorno al santuario omonimo, retta dai benedettini. L'abate, pur non essendo consacrato vescovo, ha le funzioni di ordinario del luogo.
Mercogliano, provincia di Avellino, la notte
scende aspra e tagliente, come il vento
freddo che spazza le strade. In chiesa per la Messa sono raccolte poco
più di venti persone intirizzite. Il giovane sacerdote legge il Vangelo
di Luca, che parla delle Pie donne che trovano il sepolcro vuoto e la
pietra rotolata lontano. e per
spiegare il mistero della risurrezione, cita Confucio: «Ciò che per il
bruco è la fine di tutto, il mondo chiama farfalla». Don Vitaliano
Della Sala, 40 anni, di cui gli ultimi 7-8 trascorsi sotto i riflettori
ha un sorriso appena accennato, con un'ombra di tristezza. Come se si
stesse chiedendo anche lui quale sarà il suo destino, bruco o farfalla,
pietra dello scandalo o semplice prete di provincia,
"cappellano" dei no-global o ministro di Dio, al servizio
della sua piccola comunità.
Siamo a pochi chilometri da Sant'Angelo a Scala, il paesino di 700 anime
di cui don Vitaliano è parroco dal 1992. O meglio: era parroco, fino al
22 novembre 2002, quando l'ordinario della diocesi di Montevergine,
l'abate Tarcisio Nazzaro, non lo ha rimosso dall'incarico. Da allora
"don Vi", come lo chiamano brevemente i ragazzi del paese, è
sospeso in una sorta di limbo che - a tratti -suona quasi come un
provvedimento di "arresti domiciliari": nessun incarico
pastorale, proibizione di dire Messa in tutta la circoscrizione
ecclesiastica con la sola eccezione della parrocchia di Mercogliano,
obbligo di residenza in diocesi (per ogni spostamento deve chiedere il
permesso al vescovo), proibizione di rilasciare interviste.
Questa chiacchierata che don Vitaliano concede a Jesus è la prima dopo
le misure punitive che gli sono state comminate. Ma chi pensasse di
trovarsi di fronte al famoso prete-provocatore, il no-global in tonaca,
il black-bloc con il clergyman che tanta stampa ha descritto, verrebbe
inevitabilmente spiazzato.
La storia di Vitaliano Della Sala merita di essere raccontata
dall'inizio: da quando lui, figlio di modesti commercianti irpini, entra
a 11 anni nel seminario minore di Montevergine. «Fin da piccolo volevo
fare il prete», racconta. «Mi sembra di averlo sempre voluto. Avevo in
testa un modello: il mio parroco, una figura positiva di uomo paterno e
aperto, entusiasta del rinnovamento conciliare». Gli
"incidenti di percorso", però, cominciano presto: al secondo
anno di liceo, il ragazzo, accusato di "insubordinazione",
viene espulso dal seminario. È l'occasione per interrogarsi sulle
proprie scelte e la strada da seguire: «Mi chiedevo: "Ma è
proprio il prete che voglio fare nella vita?". E la risposta,
allora come in seguito, è stata "sì!"». Dopo la maturità,
Vitaliano viene riammesso in seminario, nella diocesi di Napoli. Alla
sezione S. Luigi, gestita dai gesuiti a Posillipo, però ci resta solo
per i due anni di teologia: «Fui espulso anche da lì, insieme ad altri
giovani che, come me, avevano un'idea più aperta del seminario.
Volevamo cambiare il piano di studi, volevamo aprire alla società le
porte di quel mondo ovattato e riparato. Avevamo chiesto di poter fare
catechesi nei quartieri più disagiati della città... E invece fummo
considerati dei contestatori». Ma Vitaliano, unico giovane della
diocesi di Montevergine a volersi fare prete, è testardo e non molla.
Nonostante il suo abate lo abbia abbandonato («In tè non si
intravedono neppure i germi della vocazione sacerdotale», gli ha
scritto), decide di continuare. Va a Roma e si iscrive alla Lateranense
per finire gli studi di teologia. Non essendo stato inviato dalla sua
diocesi, però, non ha un collegio che lo ospiti. Così è costretto ad
arrangiarsi: «I primi tempi è stata dura», dice. «Spesso dormivo
alla stazione, dentro il sacco a pelo, fianco a fianco con i barboni.
Con molti di loro feci amicizia. Erano piuttosto stupiti di aver a che
fare con un futuro prete...».
Ai genitori racconta la pietosa bugia di vivere in un convitto per
seminaristi. Loro gli passano un po' di soldi. E lui cerca di sbarcare
il lunario con ciò che ha: «Chiedevo ospitalità per la notte a dei
compaesani che vivevano a Roma. Spesso andavo a mangiare a una sede
degli Hare Krishna, perché era gratuita. Poi conobbi i centri sociali
della capitale: un modo a buon mercato per mangiare e per dormire. Fu
così, casualmente, che entrai in contatto per la prima volta con quella
fetta di mondo che poi sarebbe stato chiamato "no-global".
All'inizio i ragazzi erano un po' straniti dalla presenza di una sorta
di seminarista. Ma mi hanno sempre accolto bene, senza chiedermi nulla
in cambio, proprio mentre gli ambienti religiosi mi chiudevano le porte
in faccia».
Alla Lateranense, Vitaliano fa in tempo a conoscere il grande teologo
morale Bernard Hàring e si appassiona alle sue lezioni. Terminati i tre
anni di teologia, rientra a Mercogliano. In diocesi il vecchio abate
è andato in pensione e il nuovo, Francesco Tamburrino, lo accoglie
benevolmente: lo invia due anni a Padova, per una specializzazione in
liturgia a Santa Giustina e, nel dicembre 1992, lo ordina sacerdote,
affidandogli la cura pastorale di Sant' Angelo a Scala, borgo di 700
anime.
«Certo, una realtà piccola, di montagna», dice don Vitaliano, «ma
anche una comunità priva di parrocchia da 15 anni, con la chiesa
ancora chiusa per un interminabile restauro avviato dopo le lesioni
del terremoto dell'Irpinia». Il giovane parroco parte pieno di entusiasmo.
Si rivolge alle istituzioni, riempie domande e solleciti per ottenere
una rapida conclusione dei lavori. Intanto comincia a rimettere
insieme una comunità ecclesiale da tempo abbandonata a sé stessa.
Nel 1994, per la prima volta, don Vitaliano diventa "personaggio
pubblico": per protestare contro la mancata ricostruzione del
post-terremoto, si incatena davanti alla porta della chiesa e per alcuni
giorni fa lo sciopero della fame. E, per buon peso, accusa pubblicamente
i politici irpini democristiani di aver speso allegramente i soldi
stanziati, in occasione di un dibattito pubblico a cui è presente
Irene Pivetti, allora giovane presidente della Camera.
I1 prete di Sant'Angelo inizia a "fare notizia": qualche tempo
dopo, il paese si mobilita per impedire la realizzazione di una
discarica nei confini del Comune. E lui, in tonaca nera, lunga fino ai
piedi, è in prima fila al sit-in di protesta davanti alle ruspe, che
viene sgombrato a viva forza dalla polizia. Con l'abito ancora sporco di
terra, "don Vi" si presenta di nuovo davanti alle telecamere e
tuona contro le autorità. Sull'onda della notorietà, finisce così al
Maurizio Costanza Show. «In queste occasioni cominciai a capire che i
media, se "maneggiati" con intelligenza, possono anche servire
per una giusta causa ed essere usati a fin di bene», spiega con un
sorriso il giovane sacerdote. E la vanità? E il rischio di diventare un
personaggio del circo mediatico? «Certo, esiste», risponde Vitaliano.
«Ho capito che, delle volte, bisogna fare dei compromessi. Ma li si può
accettare soltanto fino a che non compromettono la dignità personale e
della causa per cui si lotta. Io conosco i miei
limiti, la vanità non mi ha mai dominato. So che non sono un grande
oratore e sono capace di non prendermi troppo sul serio. E, soprattutto,
non ho mai voluto diventare un tuttologo, pronto ad andare in
televisione a parlare di qualunque cosa, pur di comparire in video».
È in questo periodo che don Vitaliano riallaccia le relazioni col mondo
dei no-global. Da un lato la battaglia anti-discarica, dall'altro una
lettera mandata dal prete al subcomandante Marcos, il leader degli
zapatisti, portano a un contatto con i giovani del centro sociale
"Corto circuito" di Roma. E con loro, nel 1996, parte per un
viaggio in Chiapas.
È da questo momento che il piccolo parroco di provincia spalanca le
finestre sul mondo. E Sant'Angelo a Scala da paese di montagna si
trasforma simbolicamente in luogo di frontiera: se nella sua lettera a
Marcos aveva chiesto di «essere arruolato nell'esercito zapatista per
combattere la lotta non violenta per la difesa dei diritti umani», in
canonica comincia a ospitare immigrati e profughi della guerra nella ex
Jugoslavia. E se da un lato viene invitato per i vari centri sociali di
tutta la Penisola a parlare delle sue battaglie, dall'altro celebra una
veglia pasquale ecumenica insieme al pastore battista Massimo Aprile.
Ma è il vento della protesta contro la globalizzazione quello che
soffia sempre più forte. E il prete irpino si trova ancora in prima
fila: nel 1998 è nel treno che conduce a Praga i contestatori del
vertice del Wto. Le forze dell'ordine fermano il convoglio al confine. E
don Vitaliano, su quei binari, celebra la Messa. «Pensai di dover
rispondere alla violenza con cui ci bloccavano con un gesto di pace»,
spiega. «Quale miglior segno dell'Eucaristia?». Di ritorno da Praga
invita il gruppo musicale "99 Posse" (vicino ai no-global) a
suonare al suo paese: «Il concerto gratuito fu un evento: il primo vero
ingorgo stradale nella storia di Sant'Angelo».
Fin qui, l'opera del buon parroco e quella del prete no-global
continuano senza incidenti. Ma è con il Gay Pri-de, in pieno Giubileo,
e il G8 di Genova nel 2001 che il cammino di don Vitaliano si fa
accidentato. Al raduno degli omosessuali il prete prende la parola. E
spara a zero: «II mio gesto», dice Vitaliano, «voleva essere un segno
di accoglienza nei confronti di persone che erano state pesantemente
discriminate dai vertici della Chiesa. Certo, ho usato parole forti. E
oggi, ripensandoci, penso che non parteciperei più a una manifestazione
ambigua come quella. Fermo restando che sono convinto come allora che
l'emarginazione degli omosessuali è inaccettabile». Dopo
il Gay Pride il parroco di Sant'Angelo riceve il primo richiamo
ecclesiastico. E l'anno successivo i guai peggiorano: "don Vi"
firma la "dichiarazione di guerra contro il G8" stilata dai
"Disobbedienti" di Luca Casarini. Partecipa alle
manifestazioni di Genova con le "Tute bianche". E in agosto,
sfidando le ire del vescovo, organizza il primo "campeggio
no-global" a Sant'Angelo. Per una
decina di giorni il minuscolo borgo irpino si trasforma così in una
sorta di Woodstock nostrana, con le donne anziane del paese che portano
vivande fatte in casa ai ragazzi tatuati e a giovanissime dai lunghi
capelli rasta e piercing all'ombelico che siedono compunte tra i banchi
della chiesa. Le apparizioni televisive di quei giorni completano il
quadro: e il vescovo decide che la misura è colma. A marzo 2002 lo
invita a lasciare la parrocchia e, dopo una complessa trafila canonica,
il 22 novembre dello stesso anno, glielo impone con un decreto di
rimozione. Da quella data don Vitaliano accetta, in silenzio, la
punizione. I parrocchiani, invece, entrano in guerra con l'abate e con
il maldestro sacerdote inviato a sostituirlo.
Le strade di Sant'Angelo a Scala, in questa fredda giornata d'inverno,
sono deserte. Sotto una pioggerellina pungente, il prete attraversa il
paese seguito solo da un cane di razza incerta e da uno dei ragazzi cui
fa doposcuola.
Quanti errori, "don Vi"? «Beh, tanti, sicuramente. Il Gay
Pride, l'ambiguità del movimento no-global intorno al nodo della
violenza... Una cosa, però, mi da fastidio: essere considerato
disobbediente nei confronti dei superiori. Quando il vescovo mi ha
ordinato qualcosa, io ho sempre obbedito, anche se mi costava. E se oggi
mi mandasse "in esilio" in qualche Paese di missione,
accetterei senza esitazioni. Sono prete, amo la Chiesa, con tutte le sue
contraddizioni, e voglio continuare a starci seguendone le regole. Anche
se devo pagare di persona».
Giovanni
Ferrò e Luciano Scalettari |