Mi scuseranno gli amici del bimestrale di Veglie
“Controvoci” se parlo solo oggi del concorso
giornalistico che hanno indetto (in basso, in allegato
in formato word a questo articolo tutti i documenti
relativi). Staranno pensando che sia un po’ svitato, e
in effetti non hanno tutti i torti. In realtà, lo
ammetto, sono rimasto un po’ inchiodato. Il concorso
porta il nome di mio padre e non volevo delegare ad
altri amici della nostra piccola fucina di idee (così ci
piace chiamare LeccePrima) il compito di ricordarne la
figura. Ma quando si è chiamati in causa in prima
persona, non sempre le parole vengono su da sole. Oggi
forse ho avuto l’ispirazione. Sarà anche perché c’è meno
cronaca e le dita sono più rilassate. E poi tanti bravi
colleghi hanno già divulgato per tempo la notizia sulle
loro testate.
Quello che voglio fare oggi, allora, è un’altra cosa. Dare il mio
piccolo contributo e spiegarvi chi era mio padre,
Domenico Faivre e perché è importante questo concorso. E
che lo dica io, potrebbe sembrare una banale e ovvia
pubblicità. Ma non credo affatto che sia così. Ritengo,
invece, che questo concorso sia importante perché di
fronte alle giovani leve del giornalismo pone un nome
esemplare nel panorama locale, un maestro indiscusso che
il destino ha strappato via prematuramente. Ma
d’altronde, non è necessario che bussiate alla mia porta
per avere informazioni. Chiedete in giro chi era
Domenico Faivre, prima caporedattore centrale a Lecce de
“La Gazzetta del Mezzogiorno”, poi direttore di TeleRama.
Vi risponderanno mille voci. Una penna che per decenni
interi ha firmato editoriali potenti, elargendo, con uno
stile elegante e inconfondibile, sonore stilettate a
buona parte della classe politica locale, affetta, come
era solito dire, da una rara malattia endemica: la “messicanite”.
Sombrero calato sulla testa, in perenne in attesa che
passino altri a risolvere i guai di questo lembo di
terra dimenticato da Dio.
Ma forse lui poteva permetterselo, perché da buon liberale teneva
più della sua stessa vita alla libertà d’espressione e
al pluralismo dell’informazione. Mai nessun personaggio
politico s’è permesso di dirgli cosa avrebbe dovuto o
non dovuto scrivere. E negli ultimi anni si sono
presentati a turno nel salotto di casa (ero piccolo, li
sbirciavo dalle scale), cercando di tirarlo ora su una
sponda, ora sull’altra. Credo che volessero farlo
sindaco e forse qualche sirena lo ha pure ammaliato.
Poi, però, ha rimesso la testa sulle spalle e non c’è
cascato. Ed è morto da giornalista puro.
Domenico Faivre sapeva parlare alla città. Non dico che altri non
ne siano capaci. Vedo in giro tanti talenti, purtroppo,
però, spesso soffocati da un sistema di comunicazione di
massa che, per paradosso, ha proprio nell’estrema
rapidità il suo punto più debole. Noi giornalisti, per
primi, troviamo sempre meno tempo per riflettere sui
fatti, fornire una chiave di lettura degli eventi. E chi
dice che dobbiamo sempre e comunque essere distaccati,
mente spudoratamente. Siamo uomini anche noi, checché se
ne dica in giro. E la verità è un’altra: siamo divorati,
letteralmente sommersi, da un vortice di notizie,
notizione e notiziole, mail, comunicati, telefonate. Che
poi, a ben guardare, quasi sempre sono tutta spazzatura.
Spam, si dice oggi. Ma la paura del “buco” e la
concorrenza spietata fra testate ci inducono a lavorare
a testa china, spesso senza fermarci e dire, almeno per
un attimo: ma di che cavolo stiamo parlando?
Non che nel trentennio che va dagli anni ’60 agli anni ’90 fosse
molto diverso. Però, c’è un fatto. Domenico Faivre
riusciva a trovare sempre le parole giuste per mettere
in riga i signorotti locali, quando uscivano dal
seminato. Gli tarpava le ali, ma con grazia e dosando
sempre con meticolosa attenzione le espressioni. “Una
parola di troppo può uccidere una persona”, ricordava.
Era un sottile osservatore della realtà politica e
sociale salentina e spesso, proprio coloro che ne
temevano di più l’innegabile pulizia morale, lo
interpellavano per importanti suggerimenti.
Non parlavamo molto, anche se ricordo con commozione quando presi
il tesserino dell’Ordine. Mi strinse la mano e mi regalò
un sorriso. “Auguri, collega”. Credo che avesse affinato
le sue doti fin da giovanissimo, quando a Roma, dove
studiava giurisprudenza, aveva avviato le sue prime
collaborazioni. All’epoca “fare il giornale” era roba da
artigiani veri e propri, gente matta e dotata di una
forza di volontà che noi giovani possiamo scordarci. Per
anni, una volta rientrato, fece avanti e indietro di
notte da Lecce a Bari per portare le bozze della
“Gazzetta”. A volte tornava all’alba con i furgoni dei
distributori, folli che correvano a velocità smodata
sfidando la sorte.
Domenico Faivre ha scritto pagine di storia, ed oggi è lui stesso
storia. Ha allevato decine e decine di cronisti locali.
Qualcuno di loro, e mi piace pensare anche grazie ai
suoi insegnamenti, ha fatto molta strada. Anche se le
istituzioni lo hanno dimenticato. Dopo dieci anni, non
c’è una via, non c’è una saletta, non c’è uno sgabuzzino
che qualcuno abbia voluto dedicargli in tutta la
provincia. Solo iniziative private, di amici e colleghi
ai quali va il mio ringraziamento sincero. La politica,
invece, dopo avergli tributato un addio rituale, quel 15
novembre del 1997, lo ha riposto in cantina. “A pensar
male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”, dice
Giulio Andreotti: chissà, forse molti, quando se n’è
andato, hanno tirato un sospiro di sollievo.
Leggi l'articolo su www.lecceprima.it |