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   25settembre 2008 - dal Blog di Lino De Matteis

Notizie

 

02/07/2004


Il Governatore/ 6 - La parentela con i Rampino


La lobby dei Fitto ha uno dei suoi punti forti nei Rampino di Trepuzzi, imparentati con il governatore per via della nonna Carmela, che aveva conosciuto il nonno del governatore, don Felice, sul finire degli anni Trenta. Fu un matrimonio d’amore, ma dietro quei fiori d’arancio si consolidarono anche interessi economici di due importanti famiglie di imprenditori, entrambe impegnate nell’attività olearia, dividendosi le zone d’influenza: i Fitto a Maglie e nel basso Salento, i Rampino a Trepuzzi e nel nord Leccese. L’una e l’altra erano terre ricche di uliveti secolari, che producevano ogni anno tonnellate di olive.

A Trepuzzi i Rampino sono numerosi. Una stirpe con varie ramificazioni, ma, bene o male, quasi tutti imparentati. Una sorta di dinastia che ha anche visto più di un matrimonio tra cugini. Il ramo che porta a nonna Carmela Rampino parte dal matrimonio tra Raffaele Rampino e Santa Bianco, che ebbero ben otto figli dai quali discendono i cugini Alfredo Rampino, già direttore generale dell’Azienda ospedaliera “Vito Fazzi” di Lecce, che è stato poi nominato dal governatore Raffaele Fitto responsabile dell’Arpa (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) e Raffaele Rampino, impegnato prima con il sansificio “Capurro” di Campi Salentina e, poi, con la “Copersalento” di Maglie, ha amministrato, per conto dei Fitto, anche l’Hotel Risorgimento a Lecce, fino a quando è stato di loro proprietà. Un altro lontano parente, anche lui di nome Raffaele Rampino, e il figlio di quest’ultimo appena diciassettenne, Antonio, furono uccisi nel 1991 dalla Sacra corona unita, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro.

Con il matrimonio tra donna Carmela e don Felice, dunque, le due famiglie si allearono di fatto in difesa dei rispettivi interessi economici. A Maglie, don Felice Fitto era da anni impegnato nel commercio e nella lavorazione dell’olio d’oliva. L’attività era cresciuta al punto che nel 1957 si era reso opportuno fondare la “Fitto Felice & C.”, una società di fatto, insieme al figlio maggiore, Salvatore, il futuro presidente della Regione, e ai fratelli Antonio e Oronzo Portaluri. La società, nata per la vendita al dettaglio di prodotti alimentari in genere, e olio d’oliva e di semi in particolare, a partire dal 14 ottobre del 1964 iniziò anche l’attività di estrazione dell’olio d’oliva dalle sanse.

Nel 1965 don Felice, il figlio Salvatore e i fratelli Portaluri costituirono una nuova società in nome collettivo, denominata “Oleifici Fitto e Portaluri”, con sede sempre a Maglie, che si specializzò nella lavorazione del ciclo completo dell’olio. Ma il salto di qualità arrivò nel 1973 con la nascita del sansificio “Olearia Salentina, Ol.Sa.”, una società a responsabilità limitata, impegnata nella gestione di un grosso stabilimento industriale a Maglie. L’azienda, dopo un periodo di attività, cominciò ad accusare delle difficoltà economiche, tanto che, una decina d’anni più tardi, dopo il sequestro di uno dei figli di don Felice, venne messa in liquidazione il 3 novembre 1982. Don Felice e i figli Raffaele ed Antonio rimasero però nel settore tramite altre società, mentre l’altro figlio maggiore, Salvatore, era ormai impegnato a tempo pieno nell’attività politica.

A Trepuzzi, l’attività olearia interessava soprattutto Raffaele Rampino, soprannominato “mano morta”, per via dell’abitudine di tenersi dietro le spalle con una mano il polso dell’altra, che restava ciondolante. Raffaele Rampino ha avuto a che fare con il sansificio “Capurro”, dell’omonima e ricchissima famiglia di imprenditori genovesi. Leo Capurro nel 1963 aveva fondato l’impianto collocato tra Trepuzzi e Campi Salentina, anche se il territorio su cui sorgeva lo stabilimento apparteneva a quest’ultimo comune, in contrada Falchi, vicinissima alla statale Lecce-Taranto, che allora era un’arteria importante per il commercio e le attività produttive. L’industriale Capurro aveva in Raffaele Rampino il suo uomo di fiducia, sul quale contava per la gestione in loco di tutto ciò che il sansificio richiedeva.

Da società per azioni la “Capurro”, con sede legale ad Avegno, venne trasformata nel 1973 in società a responsabilità limitata, con sede secondaria a Campi Salentina, in contrada Falchi, e con un capitale sociale di tre miliardi e 800 milioni di lire. I rapporti tra Raffaele Rampino e Leo Capurro si erano ormai consolidati al punto che Rampino venne designato anche nel Collegio sindacale, quale sindaco effettivo. Il sansificio di Campi Salentina all’inizio andò alla grande, inserito com’era nel circuito internazionale in cui operavano i suoi proprietari genovesi, con diramazioni importanti anche in Sud America. Ma con il passare del tempo, quelle ciminiere sbuffanti nubi minacciose, maleodoranti e insalubri cominciarono a creare grossi problemi agli abitanti dei comuni circostanti.

Ma all’inquinamento si aggiungevano anche i rischi per l’incolumità dei dipendenti all’interno del sansificio. Alla fine di giugno 1989, uno degli otto capannoni cedette di schianto e, solo per fortuna, non ci furono vittime tra gli operai. La notizia del crollo era stata tenuta rigorosamente segreta dall’azienda, che aveva anche imposto agli operai di tenere la bocca chiusa. Solo una telefonata anonima avvertì i carabinieri, che fecero scattare le indagini. Il pretore di Campi Salentina, Nicola D’Amato, provvide subito al sequestro del capannone crollato e di un altro che sarebbe potuto venire giù da un momento all’altro. Il provvedimento di sequestro aveva valore anche di comunicazione giudiziaria, per cui titolari e responsabili dell’opificio finirono indagati per il reato di crollo colposo. Nei mesi precedenti, il capannone era stato teatro di un altro tragico incidente: un operaio, che stava lavorando alla copertura, precipitò al suolo da un’altezza di circa otto metri, proprio a causa del cedimento di una parte della struttura. Francesco Jervolino, 23 anni di Surbo, riportò ferite gravissime e morì qualche giorno dopo in ospedale.

Tra le proteste popolari, gli incidenti sul lavoro, le strutture che cadevano a pezzi, l’opificio era diventato una vera e propria “bomba ambientale” ad orologeria, tanto che, per disinnescarla, si rese necessario l’intervento diretto della Regione e dell’amministrazione comunale di Campi Salentina. Nel 1988, il sindaco democristiano dell’epoca, Nicola Quarta, ex presidente democristiano della Regione Puglia, sottoscrisse con Raffaele Rampino, in qualità di procuratore della Capurro, un preliminare di vendita dell’opificio all’amministrazione comunale. L’acquisto pubblico era maturato all’interno di un accordo tra l’amministrazione democristiana di Campi Salentina e la presidenza della Giunta regionale, anch’essa democristiana, allora presieduta da Salvatore Fitto, cugino di primo grado di Raffaele Rampino. La Regione si impegnò a pagare quattro dei sei miliardi di lire pattuiti tra il sindaco e Rampino per la cessione dello stabilimento. E lo fece con tre diverse delibere: la prima, di due miliardi, è datata 30 maggio 1988, tre mesi prima che Salvatore Fitto morisse nel tragico incidente sulla Brindisi-Taranto; la seconda, di 500 milioni, è del 28 dicembre dell’anno successivo; la terza, di un miliardo e mezzo, porta la data del 9 marzo 1990. Che cosa ne avrebbero fatto il comune e la Regione di quello stabilimento una volta acquisito al patrimonio pubblico? Seguirono anni di polemiche sulla sua destinazione d’uso, nel frattempo lo stabilimento da archeologia industriale divenne un vero e proprio rudere e finì in disuso.

“La Capurro era sbarcata a Campi Salentina intorno al 1963”, racconta l’ex sindaco comunista Egidio Zacheo, che, quando venne eletto, ereditò quel bubbone, “con due soci, i Rampino di Trepuzzi e i Capurro. All’inizio pensavamo che i Rampino fossero solo fiduciari, invece no, sono entrati come soci”. Zacheo ha vissuto in prima persona gli strascichi della storia, poiché la sua amministrazione, iniziata nel 1993, si trovò sulle spalle il peso dei debiti fatti dalla precedente amministrazione democristiana per acquistare quel rudere industriale. “La scelta di Campi Salentina per insediare la Capurro – continua Zacheo – si prestava bene al tipo di attività che l’azienda doveva svolgere. I Rampino sono di Trepuzzi, il sito industriale è tra Campi Salentina e Trepuzzi, vicinissimo alla statale Lecce-Taranto, che allora era un’arteria importante perché non c’era ancora la superstrada Lecce-Brindisi. Era quella un’ubicazione adatta insomma. I Rampino erano già affermati nel settore e rappresentavano l’ideale per essere soci, fiduciari, gestori sul territorio per conto dell’azienda”. Ma col tempo “lo stabilimento era diventato una bolgia dantesca – rammenta Zacheo – senza alcuna regola e tutela dei lavoratori, con molti infortuni e incidenti mortali. Ci fu una grande mobilitazione della popolazione contro l’inquinamento ambientale che produceva la Capurro. Negli anni Settanta a Campi nacque il quartiere della 167/B, in linea diretta con i venti prevalenti che provenivano dalla Capurro, la cui attività, eseguita senza alcun accorgimento, inquinava senza tregua. Inquinava nel senso che si stava proprio male: procurava malattie, i balconi restavano pieni di pulviscolo che sporcava tutto ed entrava nei polmoni. Io, che ho abitato lì dal 1982, ricordo che ci soffiavamo il naso e sul fazzoletto erano visibili i segni di quello che respiravamo. Ci fu una protesta molto accesa della gente, perché non c’era dubbio che quelle emissioni fossero nocive. Fu interessata più volte la magistratura. In seguito a queste proteste, intorno al 1990, con un’operazione conveniente, assai conveniente per la Capurro, la società fu acquistata dalla Regione e dal comune di Campi Salentina, per sei miliardi, quattro con un mutuo regionale e due con un mutuo comunale”.

Il sansificio produceva ormai solo danni e avrebbe richiesto ingenti investimenti per essere messo a norma di sicurezza per i lavoratori e per i cittadini. Con quale obiettivo fu deciso l’acquisto da parte di Comune e Regione? “L’obiettivo era quello di chiuderlo”, dice Zacheo, “sei miliardi poteva anche valerli se ci fosse stato il completo trasferimento della struttura. E invece, quando io sono diventato sindaco di Campi Salentina, nel 1993, mi sembrava che molta roba non ci fosse più. Siccome c’era da pagare il mutuo e poiché mi sembrava che non ci fosse una documentazione adatta per il trasferimento di quei beni all’ente pubblico, diedi disposizione perché facessero un inventario, con una documentazione fotografica e filmata in videocassetta. Ho cercato di capire se questo bene era stato completamente devoluto e trasferito all’ente pubblico. Non si sapeva che cosa fosse avvenuto nei due anni dal 1991 al 1993, perché, per esempio, mancavano gli impianti di rame, che allora era molto richiesto sul mercato. Praticamente c’erano soltanto i ruderi e il terreno. Una situazione che creava anche problemi di sicurezza pubblica, perché i muri perimetrali erano cadenti e lì mi risultò poi che si riunivano giovani, si facevano dei meeting, c’erano pozzi non chiusi, per cui feci interdire la zona, perché era pericolosa”.

L’acquisto della Capurro da parte della Regione e del Comune di Campi Salentina risultò insomma un vero e proprio bidone per i contribuenti. Non solo perché l’impianto era ormai inutilizzabile, ma perché si trasferirono agli enti pubblici anche i problemi legati al suo risanamento. “La mia amministrazione – dice ancora Zacheo – si trovò davanti alla necessità di dover risanare, perché c’era amianto. E il risanamento, sulla base di un preventivo fatto, ci sarebbe costato intorno al miliardo e mezzo di lire. La situazione, insomma, che avevamo ereditato era questa: una zona di undici ettari che non rendeva nulla, una zona inquinata, a rischio di sicurezza pubblica, luogo di incontri di criminali e mafiosi, a ridosso del centro abitato; per quella zona pagavamo un mutuo di due miliardi di lire; e per poterla risanare dovevamo spendere un altro miliardo e mezzo”.

Come per una occulta e predeterminata regia e attraverso una serie di complicati passaggi, si passò poi dal sansificio “Capurro” di Campi Salentina a quello della “Copersalento” di Maglie, passando per l’Ol.Sa. in liquidazione dei Fitto, con gli stessi protagonisti. Perché questo “trasloco”? “Maglie era il feudo di Fitto”, spiega l’ex sindaco di Campi Salentina, Egidio Zacheo. “C’era un allarme diffuso per il carattere inquinante di questi impianti e gli amministratori non erano certo molto ben disposti ad autorizzarne l’installazione sul proprio territorio comunale”. Ma le coincidenze favorevoli furono anche altre: non solo l’attività dei Rampino e dei Capurro coincideva con quella dei Fitto e della loro lunga tradizione nel campo oleario, ma c’era anche il vantaggio di avere un’amministrazione comunale amica. Centrale in questo passaggio fu, inoltre, il ruolo del presidente della Regione, don Totò Fitto, che nel frattempo aveva fatto “regionalizzare” anche il sansificio del padre, la Ol.Sa., per poi cederlo in gestione alla Copersalento, una società appositamente costituita da Raffaele Rampino e dai Capurro.

Parallelamente alla “regionalizzazione” del sansificio di Campi Salentina, Salvatore Fitto aveva infatti fatto acquistare dalla Regione, tramite l’Ersap (Ente regionale per lo sviluppo agricolo pugliese), anche lo stabilimento di Maglie della Ol.Sa., di suo padre. La società di don Felice non navigava in buone acque, tanto da essere stata messa in liquidazione, ma, a differenza di quello della Capurro, lo stabilimento che gestiva era funzionante e in buone condizioni. Nel frattempo, Raffaele Rampino e i Capurro costituirono, il 6 ottobre 1986, la società per azioni “Copersalento”, con sede a Lecce in via Imbriani e con capitale sociale iniziale di 15 miliardi e 466 milioni di lire, così suddiviso: 945 milioni a Raffaele Rampino, 77 milioni ad Armando Ezio Capurro, 593 milioni a “Capurro Leo e Figlio” srl, 8 miliardi e 341 milioni a “Capurro” srl, 10 milioni all’Ersap, 5 miliardi e 500 milioni ad “Investire Partecipazioni” spa, una derivata di “Sviluppo Italia” spa. Raffaele Rampino venne designato presidente del consiglio di amministrazione ed amministratore delegato della società. Dopo la sua costituzione la Regione assegnò in gestione lo stabilimento dell’Ol.Sa., sempre tramite l’Ersap che l’aveva acquisito, alla Copersalento del cugino del presidente Fitto.

Nonostante gli accorgimenti tecnici utilizzati, la Copersalento, da un punto di vista dell’impatto ambientale, non ebbe migliore sorte di quella della Capurro a Campi Salentina. L’inquinamento che produceva fece presto mobilitare cittadini e ambientalisti, che iniziarono un’annosa battaglia per la tutela della salute pubblica. Per oltre un decennio, si sono susseguite denunce, perizie, incontri, dibattiti in Consiglio comunale, assemblee cittadine, sit in, manifestazioni e cortei, ma senza apprezzabili risultati. La Copersalento continuava ad emettere i suoi fumi nocivi, nonostante una sentenza emessa, il 25 settembre 2000, dal giudice monocratico della Sezione distaccata di Maglie del Tribunale di Lecce, Carlo Cazzella, obbligasse i responsabili a mettersi in regola. Nella sentenza di condanna dell’amministratore delegato e legale rappresentante del sansificio, Raffaele Rampino, la sospensione della pena di cinque mesi di carcere (comminata anche al direttore dello stabilimento, Egidio Merico) era stata condizionata all’adeguamento a norma dell’emissione dei fumi nocivi.

Le indagini della magistratura, naturalmente, proseguirono per accertare la messa a noma dell’impianto. Nell’aprile 2002, il magistrato che coordinava le indagini, il sostituto procuratore Marco D’Agostino, del pool reati ambientali della Procura di Lecce, affidò a due consulenti, Francesco Fracassi e Onofrio Laricchiuta dell’Università di Bari, l’incarico di una perizia. Dopo un mese di rilievi, il 31 maggio, i due chimici conclusero che esisteva il “fondato pericolo che il normale proseguimento dell’attività di recupero e trasformazione di combustibili e rifiuti possa causare ulteriori danni e aggravare gli effetti dei reati ipotizzati”.

Dopo anni di polemiche, la svolta arrivò il 25 giugno 2002 con il sequestro preventivo della Copersalento, disposto dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Lecce Antonio Del Coco, su richiesta del sostituto procuratore Marco D’Agostino. I sigilli ai cancelli della Copersalento rappresentavano l’epilogo di una nuova inchiesta nata come costola del procedimento principale per emissione di fumi nocivi, conclusosi nel 2000 davanti al giudice di Maglie, Carlo Cazzella. Numerose le fattispecie di reato identificate a carico del legale rappresentante, Raffaele Rampino, e del direttore, Egidio Merico, iscritti nuovamente nel registro degli indagati: si andava dalla gestione di rifiuti allo scarico senza autorizzazioni, dal superamento dei limiti delle polveri nell’atmosfera all’emissione di gas nocivi.

Dopo circa un mese, il sostituto procuratore Marco D’Agostino dispose la parziale rimozione dei sigilli e, quindi, la ripresa delle attività produttive della Copersalento. L’istanza della revoca dei sigilli era stata accolta dal magistrato perché, nel frattempo, la Copersalento aveva provveduto ad installare dei filtri per mantenere nei limiti previsti le emissioni fumogene della sua caldaia e, inoltre, aveva ottenuto l’autorizzazione a scaricare nella condotta del consorzio Sisri una parte dei reflui. Intanto l’amministratore Raffaele Rampino stava provvedendo ad adeguare l’intero impianto alla normativa sulla tutela dell’ambiente.

La Copersalento aveva goduto per anni della “disattenzione” di quanti a livello di amministrazione comunale, di locale Ausl, di assessorato regionale per l’Ambiente e, per ultimo, dello stesso Commissario straordinario per l’emergenza ambientale, il governatore Raffale Fitto, avrebbero invece dovuto vigilare e intervenire. Nonostante le proteste pubbliche e le condanne della magistratura, la Copersalento aveva continuato indisturbata nella convinzione di una sostanziale impunità, operando nel feudo politico dei Fitto. I consiglieri regionali di Rifondazione comunista, Michele Losappio e Arcangelo Sannicandro, con una interrogazione all’assessore regionale all’Ambiente, Michele Saccomanno, chiesero di sapere: se la Copersalento disponesse dell’autorizzazione di valutazione d’impatto ambientale; se in quei due anni, e dopo la sentenza della magistratura di primo grado, fossero stati effettuati controlli e verifiche da parte dell’Assessorato regionale; se fosse stato interessato il Commissario straordinario per l’ambiente, cioè lo stesso presidente della Regione, Raffaele Fitto, e quali provvedimenti si intendessero assumere, alla luce delle motivazioni che avevano portato al sequestro del sansificio.

Insomma, gli interrogativi che ponevano i consiglieri di Rifondazione sollevavano anche un caso politico. Una questione delicata, poiché la “distrazione” del governatore Raffaele Fitto poteva essere letta come una sorta di “conflitto d’interessi parentale”. Come mai infatti Fitto, consigliere comunale di Maglie, Commissario straordinario per l’ambiente in Puglia, presidente della Giunta regionale, pur abitando a Maglie, non aveva mai sentito l’olezzo nauseabondo che da anni sentivano tutti i cittadini dell’interland magliese? Come mai non lo aveva sentito il sindaco di Maglie, il senatore Francesco Chirilli, fittiano doc? Come mai non lo aveva sentito neanche l’Arpa (Agenzia regionale per la protezione ambientale) allora diretta da un uomo di fiducia di Fitto, l’ingegnere Mario Morlacco (successivamente sostituito da un altro cugino di Fitto, Alfredo Rampino)? Come mai non lo avevano sentito i funzionari del Presidio multizonale di prevenzione e la Ausl Lecce/2 di Maglie? Eppure, almeno un po’, quel puzzo qualcuno l’aveva sentito, se l’assessore regionale all’Ambiente, Michele Saccomanno, ricordò che sulla Copersalento “ci fu una conferenza con il comune di Maglie nella quale invitammo l’azienda a migliorare le tecnologie, e da parte della Copersalento ci fu la volontà di onorare l’impegno”. Come dire, tra uomini d’onore, basta la parola.

Oltre ad essere un parente, Raffaele Rampino era anche uomo di fiducia della famiglia Fitto. Dopo la morte di don Totò, gli fu dato l’incarico di amministrare un “gioiello di famiglia”, lo storico Hotel Risorgimento, in via Augusto Imperatore, nella centralissima piazza Santo Oronzo di Lecce, fino a quando, nella primavera del 2002, non fu venduto all’imprenditore edile Donato Montinari. Nella società per azioni che deteneva la proprietà del Risorgimento, la “Società Alberghiera Fitto & Portaluri”, c’era praticamente tutta la famiglia Fitto: dalla vedova di don Totò, Rita Leda Dragonetti, ai figli Felice, Raffaele e Carmela, dagli zii, Raffaele e Antonio, agli storici soci e mezzi parenti dei Fitto, Oronzo, Giovanni e Maria Lucia Portaluri e ad Anna Maria Sozzo, tutti detentori di quote diverse. La gestione di un’azienda come quella richiedeva capacità amministrative e manageriali, ci voleva un uomo di fiducia e di esperienza al quale affidare quella responsabilità. E chi meglio di Raffaele Rampino? Venne così nominato presidente del consiglio di amministrazione, affiancato, in qualità di vicepresidente, da Oronzo Portaluri e, come consiglieri, dal figlio maggiore di don Totò Fitto, Felice, e dalla moglie dello zio Raffaele, Rosina Anna Aprile. Nell’aprile del 2002, la “Società Alberghiera Fitto & Portaluri”, che nel frattempo aveva cambiato nome in “Vestas”, passò di mano e l’Hotel Risorgimento fu venduto al gruppo del costruttore Montinari, pare, per la somma di circa tre miliardi di lire.

Il sospetto di contiguità con la più feroce criminalità organizzata salentina era piombato su uno dei Rampino di Trepuzzi agli inizi degli anni Novanta. Il quarantaseienne Raffaele Rampino, detto Lello, era finito in qualità di imputato a piede libero nel maxiprocesso alla Sacra corona unita. Il 21 gennaio 1991 a Lello, anche lui imprenditore oleario, uccisero il figlio diciassettenne, Antonio. Il ragazzo venne freddato con un colpo di pistola alla testa nel cortile dell’oleificio di cui era proprietario il padre a Trepuzzi. L’assassinio del minorenne venne ritenuto dagli inquirenti una vendetta trasversale contro il padre, che, appena tre mesi dopo, il 17 aprile, fu a sua volta ucciso in un agguato mafioso avvenuto mentre prendeva il caffè nel bar della piazza principale di Trepuzzi. La morte di padre e figlio e le modalità del duplice assassinio suscitarono particolare clamore nell’opinione pubblica e molta preoccupazione tra gli inquirenti, per la efferata crudeltà dimostrata in quell’occasione dalla criminalità salentina. La stampa locale riferì con grande enfasi quei due omicidi, sottolineando i pericoli della infiltrazione della criminalità organizzata nelle attività economiche della provincia.


Lino De Matteis