02/07/2004
Il Governatore/ 6 - La parentela
con i Rampino
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La
lobby dei Fitto ha uno dei suoi punti forti nei Rampino di
Trepuzzi, imparentati con il governatore per via della nonna
Carmela, che aveva conosciuto il nonno del governatore, don
Felice, sul finire degli anni Trenta. Fu un matrimonio d’amore,
ma dietro quei fiori d’arancio si consolidarono anche interessi
economici di due importanti famiglie di imprenditori, entrambe
impegnate nell’attività olearia, dividendosi le zone
d’influenza: i Fitto a Maglie e nel basso Salento, i Rampino a
Trepuzzi e nel nord Leccese. L’una e l’altra erano terre ricche
di uliveti secolari, che producevano ogni anno tonnellate di
olive.
A Trepuzzi i Rampino sono numerosi. Una stirpe con varie
ramificazioni, ma, bene o male, quasi tutti imparentati. Una
sorta di dinastia che ha anche visto più di un matrimonio tra
cugini. Il ramo che porta a nonna Carmela Rampino parte dal
matrimonio tra Raffaele Rampino e Santa Bianco, che ebbero ben
otto figli dai quali discendono i cugini Alfredo Rampino, già
direttore generale dell’Azienda ospedaliera “Vito Fazzi” di
Lecce, che è stato poi nominato dal governatore Raffaele Fitto
responsabile dell’Arpa (Agenzia regionale per la protezione
dell’ambiente) e Raffaele Rampino, impegnato prima con il
sansificio “Capurro” di Campi Salentina e, poi, con la
“Copersalento” di Maglie, ha amministrato, per conto dei Fitto,
anche l’Hotel Risorgimento a Lecce, fino a quando è stato di
loro proprietà. Un altro lontano parente, anche lui di nome
Raffaele Rampino, e il figlio di quest’ultimo appena
diciassettenne, Antonio, furono uccisi nel 1991 dalla Sacra
corona unita, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro.
Con il matrimonio tra donna Carmela e don Felice, dunque, le due
famiglie si allearono di fatto in difesa dei rispettivi
interessi economici. A Maglie, don Felice Fitto era da anni
impegnato nel commercio e nella lavorazione dell’olio d’oliva.
L’attività era cresciuta al punto che nel 1957 si era reso
opportuno fondare la “Fitto Felice & C.”, una società di fatto,
insieme al figlio maggiore, Salvatore, il futuro presidente
della Regione, e ai fratelli Antonio e Oronzo Portaluri. La
società, nata per la vendita al dettaglio di prodotti alimentari
in genere, e olio d’oliva e di semi in particolare, a partire
dal 14 ottobre del 1964 iniziò anche l’attività di estrazione
dell’olio d’oliva dalle sanse.
Nel 1965 don Felice, il figlio Salvatore e i fratelli Portaluri
costituirono una nuova società in nome collettivo, denominata
“Oleifici Fitto e Portaluri”, con sede sempre a Maglie, che si
specializzò nella lavorazione del ciclo completo dell’olio. Ma
il salto di qualità arrivò nel 1973 con la nascita del
sansificio “Olearia Salentina, Ol.Sa.”, una società a
responsabilità limitata, impegnata nella gestione di un grosso
stabilimento industriale a Maglie. L’azienda, dopo un periodo di
attività, cominciò ad accusare delle difficoltà economiche,
tanto che, una decina d’anni più tardi, dopo il sequestro di uno
dei figli di don Felice, venne messa in liquidazione il 3
novembre 1982. Don Felice e i figli Raffaele ed Antonio rimasero
però nel settore tramite altre società, mentre l’altro figlio
maggiore, Salvatore, era ormai impegnato a tempo pieno
nell’attività politica.
A Trepuzzi, l’attività olearia interessava soprattutto Raffaele
Rampino, soprannominato “mano morta”, per via dell’abitudine di
tenersi dietro le spalle con una mano il polso dell’altra, che
restava ciondolante. Raffaele Rampino ha avuto a che fare con il
sansificio “Capurro”, dell’omonima e ricchissima famiglia di
imprenditori genovesi. Leo Capurro nel 1963 aveva fondato
l’impianto collocato tra Trepuzzi e Campi Salentina, anche se il
territorio su cui sorgeva lo stabilimento apparteneva a quest’ultimo
comune, in contrada Falchi, vicinissima alla statale
Lecce-Taranto, che allora era un’arteria importante per il
commercio e le attività produttive. L’industriale Capurro aveva
in Raffaele Rampino il suo uomo di fiducia, sul quale contava
per la gestione in loco di tutto ciò che il sansificio
richiedeva.
Da società per azioni la “Capurro”, con sede legale ad Avegno,
venne trasformata nel 1973 in società a responsabilità limitata,
con sede secondaria a Campi Salentina, in contrada Falchi, e con
un capitale sociale di tre miliardi e 800 milioni di lire. I
rapporti tra Raffaele Rampino e Leo Capurro si erano ormai
consolidati al punto che Rampino venne designato anche nel
Collegio sindacale, quale sindaco effettivo. Il sansificio di
Campi Salentina all’inizio andò alla grande, inserito com’era
nel circuito internazionale in cui operavano i suoi proprietari
genovesi, con diramazioni importanti anche in Sud America. Ma
con il passare del tempo, quelle ciminiere sbuffanti nubi
minacciose, maleodoranti e insalubri cominciarono a creare
grossi problemi agli abitanti dei comuni circostanti.
Ma all’inquinamento si aggiungevano anche i rischi per
l’incolumità dei dipendenti all’interno del sansificio. Alla
fine di giugno 1989, uno degli otto capannoni cedette di
schianto e, solo per fortuna, non ci furono vittime tra gli
operai. La notizia del crollo era stata tenuta rigorosamente
segreta dall’azienda, che aveva anche imposto agli operai di
tenere la bocca chiusa. Solo una telefonata anonima avvertì i
carabinieri, che fecero scattare le indagini. Il pretore di
Campi Salentina, Nicola D’Amato, provvide subito al sequestro
del capannone crollato e di un altro che sarebbe potuto venire
giù da un momento all’altro. Il provvedimento di sequestro aveva
valore anche di comunicazione giudiziaria, per cui titolari e
responsabili dell’opificio finirono indagati per il reato di
crollo colposo. Nei mesi precedenti, il capannone era stato
teatro di un altro tragico incidente: un operaio, che stava
lavorando alla copertura, precipitò al suolo da un’altezza di
circa otto metri, proprio a causa del cedimento di una parte
della struttura. Francesco Jervolino, 23 anni di Surbo, riportò
ferite gravissime e morì qualche giorno dopo in ospedale.
Tra le proteste popolari, gli incidenti sul lavoro, le strutture
che cadevano a pezzi, l’opificio era diventato una vera e
propria “bomba ambientale” ad orologeria, tanto che, per
disinnescarla, si rese necessario l’intervento diretto della
Regione e dell’amministrazione comunale di Campi Salentina. Nel
1988, il sindaco democristiano dell’epoca, Nicola Quarta, ex
presidente democristiano della Regione Puglia, sottoscrisse con
Raffaele Rampino, in qualità di procuratore della Capurro, un
preliminare di vendita dell’opificio all’amministrazione
comunale. L’acquisto pubblico era maturato all’interno di un
accordo tra l’amministrazione democristiana di Campi Salentina e
la presidenza della Giunta regionale, anch’essa democristiana,
allora presieduta da Salvatore Fitto, cugino di primo grado di
Raffaele Rampino. La Regione si impegnò a pagare quattro dei sei
miliardi di lire pattuiti tra il sindaco e Rampino per la
cessione dello stabilimento. E lo fece con tre diverse delibere:
la prima, di due miliardi, è datata 30 maggio 1988, tre mesi
prima che Salvatore Fitto morisse nel tragico incidente sulla
Brindisi-Taranto; la seconda, di 500 milioni, è del 28 dicembre
dell’anno successivo; la terza, di un miliardo e mezzo, porta la
data del 9 marzo 1990. Che cosa ne avrebbero fatto il comune e
la Regione di quello stabilimento una volta acquisito al
patrimonio pubblico? Seguirono anni di polemiche sulla sua
destinazione d’uso, nel frattempo lo stabilimento da archeologia
industriale divenne un vero e proprio rudere e finì in disuso.
“La Capurro era sbarcata a Campi Salentina intorno al 1963”,
racconta l’ex sindaco comunista Egidio Zacheo, che, quando venne
eletto, ereditò quel bubbone, “con due soci, i Rampino di
Trepuzzi e i Capurro. All’inizio pensavamo che i Rampino fossero
solo fiduciari, invece no, sono entrati come soci”. Zacheo ha
vissuto in prima persona gli strascichi della storia, poiché la
sua amministrazione, iniziata nel 1993, si trovò sulle spalle il
peso dei debiti fatti dalla precedente amministrazione
democristiana per acquistare quel rudere industriale. “La scelta
di Campi Salentina per insediare la Capurro – continua Zacheo –
si prestava bene al tipo di attività che l’azienda doveva
svolgere. I Rampino sono di Trepuzzi, il sito industriale è tra
Campi Salentina e Trepuzzi, vicinissimo alla statale
Lecce-Taranto, che allora era un’arteria importante perché non
c’era ancora la superstrada Lecce-Brindisi. Era quella
un’ubicazione adatta insomma. I Rampino erano già affermati nel
settore e rappresentavano l’ideale per essere soci, fiduciari,
gestori sul territorio per conto dell’azienda”. Ma col tempo “lo
stabilimento era diventato una bolgia dantesca – rammenta Zacheo
– senza alcuna regola e tutela dei lavoratori, con molti
infortuni e incidenti mortali. Ci fu una grande mobilitazione
della popolazione contro l’inquinamento ambientale che produceva
la Capurro. Negli anni Settanta a Campi nacque il quartiere
della 167/B, in linea diretta con i venti prevalenti che
provenivano dalla Capurro, la cui attività, eseguita senza alcun
accorgimento, inquinava senza tregua. Inquinava nel senso che si
stava proprio male: procurava malattie, i balconi restavano
pieni di pulviscolo che sporcava tutto ed entrava nei polmoni.
Io, che ho abitato lì dal 1982, ricordo che ci soffiavamo il
naso e sul fazzoletto erano visibili i segni di quello che
respiravamo. Ci fu una protesta molto accesa della gente, perché
non c’era dubbio che quelle emissioni fossero nocive. Fu
interessata più volte la magistratura. In seguito a queste
proteste, intorno al 1990, con un’operazione conveniente, assai
conveniente per la Capurro, la società fu acquistata dalla
Regione e dal comune di Campi Salentina, per sei miliardi,
quattro con un mutuo regionale e due con un mutuo comunale”.
Il sansificio produceva ormai solo danni e avrebbe richiesto
ingenti investimenti per essere messo a norma di sicurezza per i
lavoratori e per i cittadini. Con quale obiettivo fu deciso
l’acquisto da parte di Comune e Regione? “L’obiettivo era quello
di chiuderlo”, dice Zacheo, “sei miliardi poteva anche valerli
se ci fosse stato il completo trasferimento della struttura. E
invece, quando io sono diventato sindaco di Campi Salentina, nel
1993, mi sembrava che molta roba non ci fosse più. Siccome c’era
da pagare il mutuo e poiché mi sembrava che non ci fosse una
documentazione adatta per il trasferimento di quei beni all’ente
pubblico, diedi disposizione perché facessero un inventario, con
una documentazione fotografica e filmata in videocassetta. Ho
cercato di capire se questo bene era stato completamente
devoluto e trasferito all’ente pubblico. Non si sapeva che cosa
fosse avvenuto nei due anni dal 1991 al 1993, perché, per
esempio, mancavano gli impianti di rame, che allora era molto
richiesto sul mercato. Praticamente c’erano soltanto i ruderi e
il terreno. Una situazione che creava anche problemi di
sicurezza pubblica, perché i muri perimetrali erano cadenti e lì
mi risultò poi che si riunivano giovani, si facevano dei
meeting, c’erano pozzi non chiusi, per cui feci interdire la
zona, perché era pericolosa”.
L’acquisto della Capurro da parte della Regione e del Comune di
Campi Salentina risultò insomma un vero e proprio bidone per i
contribuenti. Non solo perché l’impianto era ormai
inutilizzabile, ma perché si trasferirono agli enti pubblici
anche i problemi legati al suo risanamento. “La mia
amministrazione – dice ancora Zacheo – si trovò davanti alla
necessità di dover risanare, perché c’era amianto. E il
risanamento, sulla base di un preventivo fatto, ci sarebbe
costato intorno al miliardo e mezzo di lire. La situazione,
insomma, che avevamo ereditato era questa: una zona di undici
ettari che non rendeva nulla, una zona inquinata, a rischio di
sicurezza pubblica, luogo di incontri di criminali e mafiosi, a
ridosso del centro abitato; per quella zona pagavamo un mutuo di
due miliardi di lire; e per poterla risanare dovevamo spendere
un altro miliardo e mezzo”.
Come per una occulta e predeterminata regia e attraverso una
serie di complicati passaggi, si passò poi dal sansificio
“Capurro” di Campi Salentina a quello della “Copersalento” di
Maglie, passando per l’Ol.Sa. in liquidazione dei Fitto, con gli
stessi protagonisti. Perché questo “trasloco”? “Maglie era il
feudo di Fitto”, spiega l’ex sindaco di Campi Salentina, Egidio
Zacheo. “C’era un allarme diffuso per il carattere inquinante di
questi impianti e gli amministratori non erano certo molto ben
disposti ad autorizzarne l’installazione sul proprio territorio
comunale”. Ma le coincidenze favorevoli furono anche altre: non
solo l’attività dei Rampino e dei Capurro coincideva con quella
dei Fitto e della loro lunga tradizione nel campo oleario, ma
c’era anche il vantaggio di avere un’amministrazione comunale
amica. Centrale in questo passaggio fu, inoltre, il ruolo del
presidente della Regione, don Totò Fitto, che nel frattempo
aveva fatto “regionalizzare” anche il sansificio del padre, la
Ol.Sa., per poi cederlo in gestione alla Copersalento, una
società appositamente costituita da Raffaele Rampino e dai
Capurro.
Parallelamente alla “regionalizzazione” del sansificio di Campi
Salentina, Salvatore Fitto aveva infatti fatto acquistare dalla
Regione, tramite l’Ersap (Ente regionale per lo sviluppo
agricolo pugliese), anche lo stabilimento di Maglie della Ol.Sa.,
di suo padre. La società di don Felice non navigava in buone
acque, tanto da essere stata messa in liquidazione, ma, a
differenza di quello della Capurro, lo stabilimento che gestiva
era funzionante e in buone condizioni. Nel frattempo, Raffaele
Rampino e i Capurro costituirono, il 6 ottobre 1986, la società
per azioni “Copersalento”, con sede a Lecce in via Imbriani e
con capitale sociale iniziale di 15 miliardi e 466 milioni di
lire, così suddiviso: 945 milioni a Raffaele Rampino, 77 milioni
ad Armando Ezio Capurro, 593 milioni a “Capurro Leo e Figlio”
srl, 8 miliardi e 341 milioni a “Capurro” srl, 10 milioni all’Ersap,
5 miliardi e 500 milioni ad “Investire Partecipazioni” spa, una
derivata di “Sviluppo Italia” spa. Raffaele Rampino venne
designato presidente del consiglio di amministrazione ed
amministratore delegato della società. Dopo la sua costituzione
la Regione assegnò in gestione lo stabilimento dell’Ol.Sa.,
sempre tramite l’Ersap che l’aveva acquisito, alla Copersalento
del cugino del presidente Fitto.
Nonostante gli accorgimenti tecnici utilizzati, la Copersalento,
da un punto di vista dell’impatto ambientale, non ebbe migliore
sorte di quella della Capurro a Campi Salentina. L’inquinamento
che produceva fece presto mobilitare cittadini e ambientalisti,
che iniziarono un’annosa battaglia per la tutela della salute
pubblica. Per oltre un decennio, si sono susseguite denunce,
perizie, incontri, dibattiti in Consiglio comunale, assemblee
cittadine, sit in, manifestazioni e cortei, ma senza
apprezzabili risultati. La Copersalento continuava ad emettere i
suoi fumi nocivi, nonostante una sentenza emessa, il 25
settembre 2000, dal giudice monocratico della Sezione distaccata
di Maglie del Tribunale di Lecce, Carlo Cazzella, obbligasse i
responsabili a mettersi in regola. Nella sentenza di condanna
dell’amministratore delegato e legale rappresentante del
sansificio, Raffaele Rampino, la sospensione della pena di
cinque mesi di carcere (comminata anche al direttore dello
stabilimento, Egidio Merico) era stata condizionata
all’adeguamento a norma dell’emissione dei fumi nocivi.
Le indagini della magistratura, naturalmente, proseguirono per
accertare la messa a noma dell’impianto. Nell’aprile 2002, il
magistrato che coordinava le indagini, il sostituto procuratore
Marco D’Agostino, del pool reati ambientali della Procura di
Lecce, affidò a due consulenti, Francesco Fracassi e Onofrio
Laricchiuta dell’Università di Bari, l’incarico di una perizia.
Dopo un mese di rilievi, il 31 maggio, i due chimici conclusero
che esisteva il “fondato pericolo che il normale proseguimento
dell’attività di recupero e trasformazione di combustibili e
rifiuti possa causare ulteriori danni e aggravare gli effetti
dei reati ipotizzati”.
Dopo anni di polemiche, la svolta arrivò il 25 giugno 2002 con
il sequestro preventivo della Copersalento, disposto dal giudice
delle indagini preliminari del Tribunale di Lecce Antonio Del
Coco, su richiesta del sostituto procuratore Marco D’Agostino. I
sigilli ai cancelli della Copersalento rappresentavano l’epilogo
di una nuova inchiesta nata come costola del procedimento
principale per emissione di fumi nocivi, conclusosi nel 2000
davanti al giudice di Maglie, Carlo Cazzella. Numerose le
fattispecie di reato identificate a carico del legale
rappresentante, Raffaele Rampino, e del direttore, Egidio
Merico, iscritti nuovamente nel registro degli indagati: si
andava dalla gestione di rifiuti allo scarico senza
autorizzazioni, dal superamento dei limiti delle polveri
nell’atmosfera all’emissione di gas nocivi.
Dopo circa un mese, il sostituto procuratore Marco D’Agostino
dispose la parziale rimozione dei sigilli e, quindi, la ripresa
delle attività produttive della Copersalento. L’istanza della
revoca dei sigilli era stata accolta dal magistrato perché, nel
frattempo, la Copersalento aveva provveduto ad installare dei
filtri per mantenere nei limiti previsti le emissioni fumogene
della sua caldaia e, inoltre, aveva ottenuto l’autorizzazione a
scaricare nella condotta del consorzio Sisri una parte dei
reflui. Intanto l’amministratore Raffaele Rampino stava
provvedendo ad adeguare l’intero impianto alla normativa sulla
tutela dell’ambiente.
La Copersalento aveva goduto per anni della “disattenzione” di
quanti a livello di amministrazione comunale, di locale Ausl, di
assessorato regionale per l’Ambiente e, per ultimo, dello stesso
Commissario straordinario per l’emergenza ambientale, il
governatore Raffale Fitto, avrebbero invece dovuto vigilare e
intervenire. Nonostante le proteste pubbliche e le condanne
della magistratura, la Copersalento aveva continuato
indisturbata nella convinzione di una sostanziale impunità,
operando nel feudo politico dei Fitto. I consiglieri regionali
di Rifondazione comunista, Michele Losappio e Arcangelo
Sannicandro, con una interrogazione all’assessore regionale
all’Ambiente, Michele Saccomanno, chiesero di sapere: se la
Copersalento disponesse dell’autorizzazione di valutazione
d’impatto ambientale; se in quei due anni, e dopo la sentenza
della magistratura di primo grado, fossero stati effettuati
controlli e verifiche da parte dell’Assessorato regionale; se
fosse stato interessato il Commissario straordinario per
l’ambiente, cioè lo stesso presidente della Regione, Raffaele
Fitto, e quali provvedimenti si intendessero assumere, alla luce
delle motivazioni che avevano portato al sequestro del
sansificio.
Insomma, gli interrogativi che ponevano i consiglieri di
Rifondazione sollevavano anche un caso politico. Una questione
delicata, poiché la “distrazione” del governatore Raffaele Fitto
poteva essere letta come una sorta di “conflitto d’interessi
parentale”. Come mai infatti Fitto, consigliere comunale di
Maglie, Commissario straordinario per l’ambiente in Puglia,
presidente della Giunta regionale, pur abitando a Maglie, non
aveva mai sentito l’olezzo nauseabondo che da anni sentivano
tutti i cittadini dell’interland magliese? Come mai non lo aveva
sentito il sindaco di Maglie, il senatore Francesco Chirilli,
fittiano doc? Come mai non lo aveva sentito neanche l’Arpa
(Agenzia regionale per la protezione ambientale) allora diretta
da un uomo di fiducia di Fitto, l’ingegnere Mario Morlacco
(successivamente sostituito da un altro cugino di Fitto, Alfredo
Rampino)? Come mai non lo avevano sentito i funzionari del
Presidio multizonale di prevenzione e la Ausl Lecce/2 di Maglie?
Eppure, almeno un po’, quel puzzo qualcuno l’aveva sentito, se
l’assessore regionale all’Ambiente, Michele Saccomanno, ricordò
che sulla Copersalento “ci fu una conferenza con il comune di
Maglie nella quale invitammo l’azienda a migliorare le
tecnologie, e da parte della Copersalento ci fu la volontà di
onorare l’impegno”. Come dire, tra uomini d’onore, basta la
parola.
Oltre ad essere un parente, Raffaele Rampino era anche uomo di
fiducia della famiglia Fitto. Dopo la morte di don Totò, gli fu
dato l’incarico di amministrare un “gioiello di famiglia”, lo
storico Hotel Risorgimento, in via Augusto Imperatore, nella
centralissima piazza Santo Oronzo di Lecce, fino a quando, nella
primavera del 2002, non fu venduto all’imprenditore edile Donato
Montinari. Nella società per azioni che deteneva la proprietà
del Risorgimento, la “Società Alberghiera Fitto & Portaluri”,
c’era praticamente tutta la famiglia Fitto: dalla vedova di don
Totò, Rita Leda Dragonetti, ai figli Felice, Raffaele e Carmela,
dagli zii, Raffaele e Antonio, agli storici soci e mezzi parenti
dei Fitto, Oronzo, Giovanni e Maria Lucia Portaluri e ad Anna
Maria Sozzo, tutti detentori di quote diverse. La gestione di
un’azienda come quella richiedeva capacità amministrative e
manageriali, ci voleva un uomo di fiducia e di esperienza al
quale affidare quella responsabilità. E chi meglio di Raffaele
Rampino? Venne così nominato presidente del consiglio di
amministrazione, affiancato, in qualità di vicepresidente, da
Oronzo Portaluri e, come consiglieri, dal figlio maggiore di don
Totò Fitto, Felice, e dalla moglie dello zio Raffaele, Rosina
Anna Aprile. Nell’aprile del 2002, la “Società Alberghiera Fitto
& Portaluri”, che nel frattempo aveva cambiato nome in “Vestas”,
passò di mano e l’Hotel Risorgimento fu venduto al gruppo del
costruttore Montinari, pare, per la somma di circa tre miliardi
di lire.
Il sospetto di contiguità con la più feroce criminalità
organizzata salentina era piombato su uno dei Rampino di
Trepuzzi agli inizi degli anni Novanta. Il quarantaseienne
Raffaele Rampino, detto Lello, era finito in qualità di imputato
a piede libero nel maxiprocesso alla Sacra corona unita. Il 21
gennaio 1991 a Lello, anche lui imprenditore oleario, uccisero
il figlio diciassettenne, Antonio. Il ragazzo venne freddato con
un colpo di pistola alla testa nel cortile dell’oleificio di cui
era proprietario il padre a Trepuzzi. L’assassinio del minorenne
venne ritenuto dagli inquirenti una vendetta trasversale contro
il padre, che, appena tre mesi dopo, il 17 aprile, fu a sua
volta ucciso in un agguato mafioso avvenuto mentre prendeva il
caffè nel bar della piazza principale di Trepuzzi. La morte di
padre e figlio e le modalità del duplice assassinio suscitarono
particolare clamore nell’opinione pubblica e molta
preoccupazione tra gli inquirenti, per la efferata crudeltà
dimostrata in quell’occasione dalla criminalità salentina. La
stampa locale riferì con grande enfasi quei due omicidi,
sottolineando i pericoli della infiltrazione della criminalità
organizzata nelle attività economiche della provincia.
Lino De Matteis