Caro
Gesù stasera voglio parlarti di un tuo figlio, uno di quelli
lontani, uno di quelli che sono rimasti sempre là, dove si tributa
onore al padre, amore alla madre, fede negli uomini e nelle loro
capacità.
Voglio parlarti di uno di quelli che scriveva e cantava a molti, a
tanti, forse per nessuno, o forse solo per se stesso, per me, anche
per te.
Uno di quelli che viene additato e poi concluso in un saluto senza
troppe pretese, giudicato e messo di lato, senza conoscerne ideali e
sentimenti e passioni.
Uno di quelli liberi dentro, come il suo cane, Libero di nome e di
fatto, negli occhi che non conoscono pause, curiosi come te, che non
manchi mai di guardare dove gli occhi si chiudono per lo sfinimento.
Voglio parlartene perchè da tempo ho disconosciuto il senso di
quest’uomo, ho solamente contribuito a rafforzarne il mito, una
verità di comodo, una affermazione di sollievo per le mie rese e le
mie sconfitte, un moto di rabbia per quel che non ho, usandone
maldestramente le parole, i suoni, le stesse inattaccabili speranze.
Voglio parlarti di questo tuo figlio ribelle, nella stalla a
pensare, nella cantina a bere vino, nella vita a spalancare la porta
a una imprecazione, uno di quelli che non accetta di tradire, uno
dei tuoi figli grandi per cuore e per generosità, uno di quelli veri
fino in fondo, per ciò che hanno lasciato in eredità, nei segni
incerti sulla carta che incontrano lo sguardo Alto, uno di quelli
che sta sulla Croce senza neppure accorgersene, ma che non lascia
scampo all’anima più nera, a quella meno onesta.
Voglio parlarti di questo tuo figlio, nato contro, nato di lato agli
inganni, alle trappole degli invidiosi, di quanti non hanno voluto
rispettarlo, e stimarlo, uno di quelli dalla sofferenza nella carne,
del pessimismo con spessore, della storia che non racconta giorni
sognati, uno di quelli preso a botte, portato via, rilasciato più
vecchio nella barba, ritornato meglio ancora della vita che gli è
stata rubata.
Caro Gesù voglio parlarti di questo tuo figlio, malcelato verso le
conformità fittizie, quelle senza tradizioni, culture, uno di quelli
che non hanno voglia di mostrarsi, di mettersi in fila e attendere
un commiato, una commozione di rimando a una tragedia consumata
lentamente.
Uno di quelli con i palmi delle mani aperte, con il corpo esile a
difendere un’idea, uno di quelli che ci ha sempre creduto, che non
ha mai smesso un istante di credere di migliorare il mondo,
attraverso una nota nascosta nelle tasche vuote, uno di quelli che
forse non ti ha mai creduto, ma ti ha dato il fianco nudo.
Uno di quelli che non ha stentato di fronte al pericolo di parlare
dei vinti, degli sconfitti, dei ladri e degli assassini, ne ha
parlato con il dolore delle vittime inascoltate, con il coraggio di
chi non teme di rimanere indietro.
Come te caro Gesù, non ha mai sperperato buone parole, immensi
sentimenti, da te ha imparato a non credere a una realtà sognata, ma
a una libertà di tutti i giorni, nei gesti quotidiani ripetuti, al
fare e all’agire nel rispetto della dignità di ciascuno.
Caro Gesù ho voluto parlarti di uno di noi, uno di quelli andato via
giovane, ma rimasto lì, come una preghiera che non stanca mai, che
muove le labbra, spinge in avanti le gambe, per un po’ di pietà
sincera.
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