Mi trovavo in Egitto da un anno. Ho iniziato
lavorando come volontaria nelle missioni gestite dai padri comboniani.
San Daniele Comboni, fondatore di quest’ordine, fece dell’Egitto la
terra della tolleranza e si impegnò in prima persona nell’attività di
evangelizzazione, ma anche e soprattutto di aiuto verso le popolazioni
africane. Da volontaria, ho avuto modo di scontrarmi contro la dura
realtà dei ceti sociali più poveri. Circa 11 milioni di persone guadagna
meno di un dollaro al giorno. Solo il 5% gode delle ricchezze del paese,
e il 15%, ovvero il ceto medio, si assottiglia sempre di più. Il resto
vive male. So benissimo che la povertà è largamente diffusa anche qui,
tra di noi. Io, però, spinta da esigenze di approfondimento della lingua
araba e dalla voglia di aprire i miei orizzonti al di là di un’Italia
dove i giovani, purtroppo, non trovano lavoro, ho deciso che quella
egiziana sarebbe stata la mia terra per un po’. Poi, al volontariato, ho
abbinato il lavoro vero e proprio, scontrandomi ogni giorno con la
povertà assoluta da una parte
(quartieri
popolari fatti di strade polverose e case senza tetto, bambini che
giocano nell’immondizia a piedi scalzi…quando giocano…perché spesso
lavorano come venditori ambulanti o vengono mandati in giro a chiedere
l’elemosina) e dall’altra con lo sfarzo e il lusso più sfrenati. Da una
parte i super-stipendi dei managers stranieri, dall’altra la misera paga
degli impiegati statali egiziani e dei dipendenti low-cost che devono
fare più lavori per garantire un pasto alle famiglie numerose.
Sono passate già 3 settimane da quando decisi di prendere quell’aereo
che mi avrebbe riportata a casa e nonostante il mio rientro, la mia
mente è sempre stata lì, al Cairo, dove ho lasciato all’improvviso la
mia quotidianità, gli affetti e gli amici, temendo di non rivederli più.
Penso ai messaggi quotidiani che ricevo dall’Egitto, dove mi invitano a
rientrare perché sembra che sia tornata la “normalità”. “Normali” gli
eventi del Cairo non possono essere definiti, anzi si tratta di un
fenomeno straordinario che sta colpendo e scuotendo tutto il Medio
Oriente. L’Egitto, dopo la Tunisia, ha lasciato un segno profondo,
stupendo anche le giovani coscienze italiane, che hanno assistito da
lontano e tramite i media a questo fenomeno.
Ho letto che l’occidente teme il bis della rivoluzione khomeinista del
’79, ovvero un ritorno all’islam radicale. Tuttavia, dal mio punto di
vista, da semplice osservatrice e da ospite da oltre un anno di questo
paese al di là del Mediterraneo, ritengo che quello che sia successo e
che stia continuando ad accadere in Egitto, non nasca da una voglia di
islamizzazione, ma da un’esigenza molto più immediata: la democrazia,
con tutto ciò che ad essa si lega.
Mi è già capitato spesso di raccontare quello che ho vissuto al Cairo:
il mio primo ed unico giorno di protesta, il 25 gennaio, in occasione
della festa della polizia (Eid al-Shurta), quando in migliaia si sono
rovesciati in quella famosa piazza, Midan Tahrir, piazza della
Liberazione, vestita soprattutto di gioventù: giovani universitari,
donne, intellettuali con i quali mi sono trovata spesso a chiacchierare
nei caffè del Cairo, chiedendo loro perché in Egitto nessuno osasse
reclamare i propri diritti, tanto usurpati.
Dire “fine di una dittatura” credo non spieghi chiaramente la
situazione. Studiando la storia dell’umanità, ci imbattiamo di continuo
in rivolte, sommosse, rivoluzioni scatenate spesso dal malcontento del
popolo che chiede sempre, di generazione in generazione, le stesse cose:
“pane e libertà”. Vedendo l’Egitto e i suoi giovani (ma non solo) quel
25 gennaio mi ha emozionata, ma allo stesso tempo mi ha messo paura. Non
mi sentivo sicura. I ragazzi erano lì, compatti, uniti, molti seduti per
terra sorseggiando tè o acqua, le ragazze erano lì, sorridenti, fiere di
essere parte di un movimento anti-regime. Tuttavia, la polizia creava
intorno a loro, un cordone umano che chiudeva qualsiasi via di fuga da
quella piazza, così grande ma claustrofobica al tempo stesso, stretta
tra i suoi ragazzi e queste divise anti-sommossa, immobili, impietrite
sotto il casco. Dopo il 25 gennaio non tornai più a Midan Tahrir, quella
notte la polizia caricò i manifestanti che in migliaia avevano
continuato il loro sit-in o “bivacco”, come molti media l’hanno
definito, anche di notte.
Il numero delle vittime continuava a salire, al Cairo come ad
Alessandria, Suez, Assiut, Said. Fuoco e fiamme, sassi e pietre del
popolo contro gas lacrimogeni scaduti lanciati dalla polizia che hanno
provocato soffocamento e nausea, pallottole di gomma che hanno causato
anche la morte. Il bilancio, aggiornato a mercoledì 16 febbraio, secondo
il ministero della sanità egiziano è di 365 morti e 5500 feriti. Ed io
ero in casa. Coprifuoco ed isolamento mediatico. Ecco la risposta del
regime: taglio delle vie di comunicazione e coprifuoco dalle 16.00 alle
8.00 del mattino. Ed io sempre lì, con la televisione accesa
sintonizzata tra BBC Arabic e al-Jazira, cercando di ricomporre i pezzi
di un Egitto che stava crollando, all’improvviso.
Gli spari sotto casa mi hanno torturato i nervi per almeno 4 giorni. Il
Maadi, uno dei quartieri più sicuri ed occidentalizzati, dove io
condivido un piccolo appartamento con un’altra ragazza italiana, si era
trasformato in uno dei posti maggiormente a rischio nella capitale
egiziana. Pur essendo lontano dal cuore della protesta, era vicino ad un
pericoloso carcere, da quale uscivano criminali inferociti ed armati. La
polizia si ritirò la sera di quel venerdì nero, il 28 gennaio, dove
molti hanno perso la vita, decise di ritirarsi, facendo saltare ogni
misura di sicurezza. Quella sera stessa l’esercito ne prese il posto, ma
prima di gestire la situazione, passò del tempo: questi criminali ne
approfittarono per compiere uno sciacallaggio selvaggio in tutto il
Cairo, iniziando proprio dai quartieri più ricchi, come il Maadi. Ed io
ero lì, quasi ignara di quanto stesse accadendo intorno a me. Ricordo
che gli spari iniziarono quella notte del 28 gennaio, ma lo stremo di
una giornata con i nervi a fior di pelle, gettò il mio corpo in un
torpore dal quale mi sarei svegliata solo la mattina seguente, con
l’ansia di riuscire a comunicare con l’Italia, con la quale purtroppo
ogni ponte era tagliato. La mia testa pesante accolse immediatamente il
pensiero di casa e già immaginavo che i telegiornali stessero dando
l’annuncio della distruzione. Pensavo alle sensazioni di chi mi amava e
non poteva avere mie notizie e, impotente, guardava la tv con le scene
più cruente, ingigantite dai media che con la sensazionalità della
notizia alzano l’audience. Gli spari aumentarono quella mattina, ed io,
nella follia dell’impotenza, decisi di dedicarmi alla cucina. Volevo
cucinare per tutti, anche per la ragazza che dal piano di sopra era
venuta a rifugiarsi da noi per sentirsi più al sicuro. Cercavo di
ignorare quello che stava accadendo fuori, ma agli spari si erano
aggiunti i latrati disperati dei cani, terrorizzati dal frastuono. Gli
uccelli strillavano ed io cercavo di sorridere e di preparare un bel
pranzo. Finchè Nabil, studente egiziano di 24 anni, che era con noi per
proteggerci, decise di prendere la sua arma, una macchina fotografica
professionale, e di unirsi al popolo, per testimoniare attraverso sé
stesso quello che il suo popolo stava facendo. Inutile fargli
raccomandazioni come “Stai attento!”: quel giorno a pochi metri da Nabil,
un suo amico fotografo di 30 anni, Ahmed Bassiouni, padre di 2 bimbi, è
stato raggiunto da un proiettile perdendo la vita sul colpo.
Il
mio pensiero volava a Nabil, le cui ultime parole, prima di scendere
furono : “Non posso certo nascondermi come un coniglio, mentre per
strada ci sono vecchi e bambini pronti a morire per l’Egitto. Ho il
dovere morale di unirmi al mio popolo!”.
E così, tanti come lui, tutti come lui, mossi da un sentimento d’unità
nazionale, mossi dalla fame e dalla sete di giustizia, si sono uniti
senza armi, alcuni solo con i sassi, e hanno vinto contro le armi.
Io non so nemmeno come poter racchiudere in un solo articolo l’emozione
e la trepidazione che mi hanno fatto da compagne in quei giorni, non so
come descrivere i volti di quel popolo, gli occhi di quelle persone che
per la storia diventeranno numeri: 365 morti e 5500 feriti. La storia
legge i numeri, io, però, che quei volti li ho visti, non li posso
interpretare come un numero, per me sono vite umane, perdute o messe in
pericolo per una causa.
Finalmente le linee telefoniche erano state riattivate. Sentii mamma e
papà, seppi che in tanti chiedevano di me. È stato bello sentire le loro
voci e sapere che c’era chi in quei giorni stava pregando per me. Io
stavo bene, vivevo nel pericolo, nell’ansia, ma vivevo la storia, la
respiravo. Quella sera ci raggiunse una telefonata: “Sally è morta. È
stata colpita da un proiettile volante alla testa mentre manifestava”.
Sally aveva 22 anni, era una ragazza egiziana che io conoscevo di vista
perché la vedevo sempre seduta al caffè Hamideyya, proprio dietro piazza
Tahrir. Sognava la libertà. Viveva da sola: grande prova di coraggio per
un’egiziana che vuole provare ad emanciparsi. Normalmente, in Egitto, se
una donna non si sposa, non può lasciare il tetto familiare. Sally
rientra in quel numero che la storia ricorderà.
L’Egitto non è Sharm El-Sheikh, non sono gli hotel sul Mar Rosso, non
sono i cammelli e le piramidi. Non sono quei palazzoni che irrompono
prepotenti sul lungo Nilo. L’Egitto è un popolo giovane, dove il tenore
di vita è bassissimo, la mortalità è ancora alta, dove ogni famiglia ha
in media 5 figli. È un popolo che rivendica i suoi diritti.
Mi sono sempre chiesta perché questo popolo sorridesse e pregasse,
piangesse e pregasse, accogliesse i suoi turisti sapendo che godono di
maggiore protezione da parte dello stato rispetto a loro e non si
accorgesse che i suoi figli non hanno un futuro. O per lo meno, non un
futuro come quello che la mia famiglia mi ha garantito attraverso
un’istruzione degna e tutto quello che chiedevo. Quante volte ho
ignorato che il mio benessere potesse essere il frutto di un sacrificio
altrui? Forse il sacrificio dei miei nonni: in fondo quelle strade,
soprattutto quelle dei paesini di campagna o sperduti nel deserto che
circonda il Cairo rievocano i racconti dei miei nonni… quando l’acqua si
prendeva dal pozzo, si mangiava pane e cipolla, e ci si spostava con i
cavalli.
L’Egitto è pieno di ONG, organizzazioni umanitarie, che hanno come
obiettivo la “cooperazione allo sviluppo”, ossia aiutare la gente a
crescere, a svilupparsi. Io stessa lavoro come volontaria in una di
queste organizzazioni: ho ancora impressi nella mente gli sguardi delle
ragazze della neonata cooperativa d’arte sacra in un villaggio vicino
all’oasi del Fayoum, entusiasti e carichi di speranza. La nostra
organizzazione fornisce loro gli strumenti per un investimento, per
realizzare la loro indipendenza, per non vedere i viaggi della speranza
con i traghetti per le coste italiane come ultima ancora di salvezza!
Di certo una porta è stata spalancata: il popolo ha varcato la soglia
della libertà. Mubarak, il famoso Mubarak protagonista inconsapevole
della “politica” italiana, si è arreso.
Il popolo non può tirarsi indietro ormai, non può tornare alla
“normalità”, perché niente sarà più come prima. Sotto le bandiere
dell’Egitto, ci sono le colonne dello stesso: i figli di questa terra
che non possono dimenticare le vittime immolate per la loro Liberazione.
E qualcosa di buono, la porterà questo sacrificio. La mia preghiera, il
mio grido interiore per la pace ora riecheggia più forte dentro me. Io
sono solo una delle tante testimoni della storia, una spettatrice che
quasi in prima fila ha assistito all’inizio di un lungo processo di
cambiamento.
Ho visto carri armati e proiettili sparati in aria dalla finestra della
mia stanza. Ho visto le ronde sotto casa organizzate da padri, figli,
piccoli e grandi, mariti che vestiti di bianco e armati di bastoni
sorvegliavano la zone minacciata dagli sciacalli.
Ho sentito la tensione e la vibrazione del silenzio rotto da spari e
cingoli di carri armati.
In un certo senso ho sperimentato quello che, grazie ai miei antenati,
non ho mai provato: la paura e il panico causati dall’assenza di pace.
Anzi, al mio ritorno qui a Veglie, la sera dell’1 febbraio ho provato lo
stupore per la pace: la pace della sera che invade le strade del paese,
per alcuni forse noiose, la pace del sonno tranquillo, la libertà di
uscire senza temere pallottole volanti o assalti. La pace della gente
intorno a me. Sento l’esigenza di custodire questa pace. Siamo noi,
giovani, che dobbiamo impedire ai nostri usurpatori di toglierci la
pace.
Chiudo con questa citazione, tratta da un articolo scritto da un padre
missionario, Giovanni Esti, la cui Chiesa, dove faccio volontariato, si
trova proprio a 2 passi dalla famosa piazza teatro di violenze, ma anche
di giovani pronti ad avere anche loro finalmente un ruolo nella società:
“L’Egitto è un paese meraviglioso non solo per l’eredità storica dei
suoi reperti archeologici che attraggono milioni di turisti, neppure per
le infinite sfumature di colori e sensazioni dei suoi mercati. È
straordinario per il suo popolo, gli Egiziani, giovani ed anziani,
uomini e donne, musulmani e cristiani. Il profondo senso d’ospitalità,
il rispetto per gli anziani ed i genitori, il naturale trasporto al
soprannaturale, la gioia della condivisione sono valori profondamente
condivisi. Nei giorni più recenti si è nuovamente ascoltato un grido di
liberazione, come Tahrir vuol dire. Nel sogno di Daniele Comboni
l’Egitto rappresentava il paese della coesistenza possibile. Piazza
Tahrir su cui Cordi Jesu si affaccia lo ha fatto intravedere come un
sogno mai interrotto, dove i minareti e i campanili sono al servizio
della libertà e della giustizia e non viceversa.”
Io, personalmente, credo nei giovani e nelle giovani del mio paese,
credo e spero nelle loro coscienze. Prego per la giustizia sociale di
cui noi, giovani, siamo gli eredi. Credo nelle manifestazioni pacifiche
e credo che i giovani d’Egitto ci abbiamo insegnato cosa significhi
“resistere”!
Ilaria Costa, Veglie
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