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Lettere

02 aprile 2011 - di Ilaria Costa

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Volti d'Egitto

Mi trovavo in Egitto da un anno. Ho iniziato lavorando come volontaria nelle missioni gestite dai padri comboniani. San Daniele Comboni, fondatore di quest’ordine, fece dell’Egitto la terra della tolleranza e si impegnò in prima persona nell’attività di evangelizzazione, ma anche e soprattutto di aiuto verso le popolazioni africane. Da volontaria, ho avuto modo di scontrarmi contro la dura realtà dei ceti sociali più poveri. Circa 11 milioni di persone guadagna meno di un dollaro al giorno. Solo il 5% gode delle ricchezze del paese, e il 15%, ovvero il ceto medio, si assottiglia sempre di più. Il resto vive male. So benissimo che la povertà è largamente diffusa anche qui, tra di noi. Io, però, spinta da esigenze di approfondimento della lingua araba e dalla voglia di aprire i miei orizzonti al di là di un’Italia dove i giovani, purtroppo, non trovano lavoro, ho deciso che quella egiziana sarebbe stata la mia terra per un po’. Poi, al volontariato, ho abbinato il lavoro vero e proprio, scontrandomi ogni giorno con la povertà assoluta da una parte (quartieri popolari fatti di strade polverose e case senza tetto, bambini che giocano nell’immondizia a piedi scalzi…quando giocano…perché spesso lavorano come venditori ambulanti o vengono mandati in giro a chiedere l’elemosina) e dall’altra con lo sfarzo e il lusso più sfrenati. Da una parte i super-stipendi dei managers stranieri, dall’altra la misera paga degli impiegati statali egiziani e dei dipendenti low-cost che devono fare più lavori per garantire un pasto alle famiglie numerose.
Sono passate già 3 settimane da quando decisi di prendere quell’aereo che mi avrebbe riportata a casa e nonostante il mio rientro, la mia mente è sempre stata lì, al Cairo, dove ho lasciato all’improvviso la mia quotidianità, gli affetti e gli amici, temendo di non rivederli più. Penso ai messaggi quotidiani che ricevo dall’Egitto, dove mi invitano a rientrare perché sembra che sia tornata la “normalità”. “Normali” gli eventi del Cairo non possono essere definiti, anzi si tratta di un fenomeno straordinario che sta colpendo e scuotendo tutto il Medio Oriente. L’Egitto, dopo la Tunisia, ha lasciato un segno profondo, stupendo anche le giovani coscienze italiane, che hanno assistito da lontano e tramite i media a questo fenomeno.
Ho letto che l’occidente teme il bis della rivoluzione khomeinista del ’79, ovvero un ritorno all’islam radicale. Tuttavia, dal mio punto di vista, da semplice osservatrice e da ospite da oltre un anno di questo paese al di là del Mediterraneo, ritengo che quello che sia successo e che stia continuando ad accadere in Egitto, non nasca da una voglia di islamizzazione, ma da un’esigenza molto più immediata: la democrazia, con tutto ciò che ad essa si lega.
Mi è già capitato spesso di raccontare quello che ho vissuto al Cairo: il mio primo ed unico giorno di protesta, il 25 gennaio, in occasione della festa della polizia (Eid al-Shurta), quando in migliaia si sono rovesciati in quella famosa piazza, Midan Tahrir, piazza della Liberazione, vestita soprattutto di gioventù: giovani universitari, donne, intellettuali con i quali mi sono trovata spesso a chiacchierare nei caffè del Cairo, chiedendo loro perché in Egitto nessuno osasse reclamare i propri diritti, tanto usurpati.
Dire “fine di una dittatura” credo non spieghi chiaramente la situazione. Studiando la storia dell’umanità, ci imbattiamo di continuo in rivolte, sommosse, rivoluzioni scatenate spesso dal malcontento del popolo che chiede sempre, di generazione in generazione, le stesse cose: “pane e libertà”. Vedendo l’Egitto e i suoi giovani (ma non solo) quel 25 gennaio mi ha emozionata, ma allo stesso tempo mi ha messo paura. Non mi sentivo sicura. I ragazzi erano lì, compatti, uniti, molti seduti per terra sorseggiando tè o acqua, le ragazze erano lì, sorridenti, fiere di essere parte di un movimento anti-regime. Tuttavia, la polizia creava intorno a loro, un cordone umano che chiudeva qualsiasi via di fuga da quella piazza, così grande ma claustrofobica al tempo stesso, stretta tra i suoi ragazzi e queste divise anti-sommossa, immobili, impietrite sotto il casco. Dopo il 25 gennaio non tornai più a Midan Tahrir, quella notte la polizia caricò i manifestanti che in migliaia avevano continuato il loro sit-in o “bivacco”, come molti media l’hanno definito, anche di notte.
Il numero delle vittime continuava a salire, al Cairo come ad Alessandria, Suez, Assiut, Said. Fuoco e fiamme, sassi e pietre del popolo contro gas lacrimogeni scaduti lanciati dalla polizia che hanno provocato soffocamento e nausea, pallottole di gomma che hanno causato anche la morte. Il bilancio, aggiornato a mercoledì 16 febbraio, secondo il ministero della sanità egiziano è di 365 morti e 5500 feriti. Ed io ero in casa. Coprifuoco ed isolamento mediatico. Ecco la risposta del regime: taglio delle vie di comunicazione e coprifuoco dalle 16.00 alle 8.00 del mattino. Ed io sempre lì, con la televisione accesa sintonizzata tra BBC Arabic e al-Jazira, cercando di ricomporre i pezzi di un Egitto che stava crollando, all’improvviso.
Gli spari sotto casa mi hanno torturato i nervi per almeno 4 giorni. Il Maadi, uno dei quartieri più sicuri ed occidentalizzati, dove io condivido un piccolo appartamento con un’altra ragazza italiana, si era trasformato in uno dei posti maggiormente a rischio nella capitale egiziana. Pur essendo lontano dal cuore della protesta, era vicino ad un pericoloso carcere, da quale uscivano criminali inferociti ed armati. La polizia si ritirò la sera di quel venerdì nero, il 28 gennaio, dove molti hanno perso la vita, decise di ritirarsi, facendo saltare ogni misura di sicurezza. Quella sera stessa l’esercito ne prese il posto, ma prima di gestire la situazione, passò del tempo: questi criminali ne approfittarono per compiere uno sciacallaggio selvaggio in tutto il Cairo, iniziando proprio dai quartieri più ricchi, come il Maadi. Ed io ero lì, quasi ignara di quanto stesse accadendo intorno a me. Ricordo che gli spari iniziarono quella notte del 28 gennaio, ma lo stremo di una giornata con i nervi a fior di pelle, gettò il mio corpo in un torpore dal quale mi sarei svegliata solo la mattina seguente, con l’ansia di riuscire a comunicare con l’Italia, con la quale purtroppo ogni ponte era tagliato. La mia testa pesante accolse immediatamente il pensiero di casa e già immaginavo che i telegiornali stessero dando l’annuncio della distruzione. Pensavo alle sensazioni di chi mi amava e non poteva avere mie notizie e, impotente, guardava la tv con le scene più cruente, ingigantite dai media che con la sensazionalità della notizia alzano l’audience. Gli spari aumentarono quella mattina, ed io, nella follia dell’impotenza, decisi di dedicarmi alla cucina. Volevo cucinare per tutti, anche per la ragazza che dal piano di sopra era venuta a rifugiarsi da noi per sentirsi più al sicuro. Cercavo di ignorare quello che stava accadendo fuori, ma agli spari si erano aggiunti i latrati disperati dei cani, terrorizzati dal frastuono. Gli uccelli strillavano ed io cercavo di sorridere e di preparare un bel pranzo. Finchè Nabil, studente egiziano di 24 anni, che era con noi per proteggerci, decise di prendere la sua arma, una macchina fotografica professionale, e di unirsi al popolo, per testimoniare attraverso sé stesso quello che il suo popolo stava facendo. Inutile fargli raccomandazioni come “Stai attento!”: quel giorno a pochi metri da Nabil, un suo amico fotografo di 30 anni, Ahmed Bassiouni, padre di 2 bimbi, è stato raggiunto da un proiettile perdendo la vita sul colpo.
Il mio pensiero volava a Nabil, le cui ultime parole, prima di scendere furono : “Non posso certo nascondermi come un coniglio, mentre per strada ci sono vecchi e bambini pronti a morire per l’Egitto. Ho il dovere morale di unirmi al mio popolo!”.
E così, tanti come lui, tutti come lui, mossi da un sentimento d’unità nazionale, mossi dalla fame e dalla sete di giustizia, si sono uniti senza armi, alcuni solo con i sassi, e hanno vinto contro le armi.
Io non so nemmeno come poter racchiudere in un solo articolo l’emozione e la trepidazione che mi hanno fatto da compagne in quei giorni, non so come descrivere i volti di quel popolo, gli occhi di quelle persone che per la storia diventeranno numeri: 365 morti e 5500 feriti. La storia legge i numeri, io, però, che quei volti li ho visti, non li posso interpretare come un numero, per me sono vite umane, perdute o messe in pericolo per una causa.
Finalmente le linee telefoniche erano state riattivate. Sentii mamma e papà, seppi che in tanti chiedevano di me. È stato bello sentire le loro voci e sapere che c’era chi in quei giorni stava pregando per me. Io stavo bene, vivevo nel pericolo, nell’ansia, ma vivevo la storia, la respiravo. Quella sera ci raggiunse una telefonata: “Sally è morta. È stata colpita da un proiettile volante alla testa mentre manifestava”. Sally aveva 22 anni, era una ragazza egiziana che io conoscevo di vista perché la vedevo sempre seduta al caffè Hamideyya, proprio dietro piazza Tahrir. Sognava la libertà. Viveva da sola: grande prova di coraggio per un’egiziana che vuole provare ad emanciparsi. Normalmente, in Egitto, se una donna non si sposa, non può lasciare il tetto familiare. Sally rientra in quel numero che la storia ricorderà.
L’Egitto non è Sharm El-Sheikh, non sono gli hotel sul Mar Rosso, non sono i cammelli e le piramidi. Non sono quei palazzoni che irrompono prepotenti sul lungo Nilo. L’Egitto è un popolo giovane, dove il tenore di vita è bassissimo, la mortalità è ancora alta, dove ogni famiglia ha in media 5 figli. È un popolo che rivendica i suoi diritti.
Mi sono sempre chiesta perché questo popolo sorridesse e pregasse, piangesse e pregasse, accogliesse i suoi turisti sapendo che godono di maggiore protezione da parte dello stato rispetto a loro e non si accorgesse che i suoi figli non hanno un futuro. O per lo meno, non un futuro come quello che la mia famiglia mi ha garantito attraverso un’istruzione degna e tutto quello che chiedevo. Quante volte ho ignorato che il mio benessere potesse essere il frutto di un sacrificio altrui? Forse il sacrificio dei miei nonni: in fondo quelle strade, soprattutto quelle dei paesini di campagna o sperduti nel deserto che circonda il Cairo rievocano i racconti dei miei nonni… quando l’acqua si prendeva dal pozzo, si mangiava pane e cipolla, e ci si spostava con i cavalli.
L’Egitto è pieno di ONG, organizzazioni umanitarie, che hanno come obiettivo la “cooperazione allo sviluppo”, ossia aiutare la gente a crescere, a svilupparsi. Io stessa lavoro come volontaria in una di queste organizzazioni: ho ancora impressi nella mente gli sguardi delle ragazze della neonata cooperativa d’arte sacra in un villaggio vicino all’oasi del Fayoum, entusiasti e carichi di speranza. La nostra organizzazione fornisce loro gli strumenti per un investimento, per realizzare la loro indipendenza, per non vedere i viaggi della speranza con i traghetti per le coste italiane come ultima ancora di salvezza!
Di certo una porta è stata spalancata: il popolo ha varcato la soglia della libertà. Mubarak, il famoso Mubarak protagonista inconsapevole della “politica” italiana, si è arreso.
Il popolo non può tirarsi indietro ormai, non può tornare alla “normalità”, perché niente sarà più come prima. Sotto le bandiere dell’Egitto, ci sono le colonne dello stesso: i figli di questa terra che non possono dimenticare le vittime immolate per la loro Liberazione. E qualcosa di buono, la porterà questo sacrificio. La mia preghiera, il mio grido interiore per la pace ora riecheggia più forte dentro me. Io sono solo una delle tante testimoni della storia, una spettatrice che quasi in prima fila ha assistito all’inizio di un lungo processo di cambiamento.
Ho visto carri armati e proiettili sparati in aria dalla finestra della mia stanza. Ho visto le ronde sotto casa organizzate da padri, figli, piccoli e grandi, mariti che vestiti di bianco e armati di bastoni sorvegliavano la zone minacciata dagli sciacalli.
Ho sentito la tensione e la vibrazione del silenzio rotto da spari e cingoli di carri armati.
In un certo senso ho sperimentato quello che, grazie ai miei antenati, non ho mai provato: la paura e il panico causati dall’assenza di pace. Anzi, al mio ritorno qui a Veglie, la sera dell’1 febbraio ho provato lo stupore per la pace: la pace della sera che invade le strade del paese, per alcuni forse noiose, la pace del sonno tranquillo, la libertà di uscire senza temere pallottole volanti o assalti. La pace della gente intorno a me. Sento l’esigenza di custodire questa pace. Siamo noi, giovani, che dobbiamo impedire ai nostri usurpatori di toglierci la pace.
Chiudo con questa citazione, tratta da un articolo scritto da un padre missionario, Giovanni Esti, la cui Chiesa, dove faccio volontariato, si trova proprio a 2 passi dalla famosa piazza teatro di violenze, ma anche di giovani pronti ad avere anche loro finalmente un ruolo nella società:
“L’Egitto è un paese meraviglioso non solo per l’eredità storica dei suoi reperti archeologici che attraggono milioni di turisti, neppure per le infinite sfumature di colori e sensazioni dei suoi mercati. È straordinario per il suo popolo, gli Egiziani, giovani ed anziani, uomini e donne, musulmani e cristiani. Il profondo senso d’ospitalità, il rispetto per gli anziani ed i genitori, il naturale trasporto al soprannaturale, la gioia della condivisione sono valori profondamente condivisi. Nei giorni più recenti si è nuovamente ascoltato un grido di liberazione, come Tahrir vuol dire. Nel sogno di Daniele Comboni l’Egitto rappresentava il paese della coesistenza possibile. Piazza Tahrir su cui Cordi Jesu si affaccia lo ha fatto intravedere come un sogno mai interrotto, dove i minareti e i campanili sono al servizio della libertà e della giustizia e non viceversa.”
Io, personalmente, credo nei giovani e nelle giovani del mio paese, credo e spero nelle loro coscienze. Prego per la giustizia sociale di cui noi, giovani, siamo gli eredi. Credo nelle manifestazioni pacifiche e credo che i giovani d’Egitto ci abbiamo insegnato cosa significhi “resistere”!


Ilaria Costa, Veglie