Sport   a cura di Antonella Carrozzini

(Torna)   (Chiudi la pagina

25 gennaio 2004 - Adattamento su articolo tratto da Famiglia Cristiana n° 1/2004

 

2004 Anno Europeo dell’educazione attraverso lo Sport

 

Beckham fa notizia perché spende 8.400 euro a settimana per portare a Madrid il suo barbiere londinese; Kelly White vince i 100 metri ai Mondiali con il contributo del Thg, l’ultimo ritrovato della farmacotruffa per sfuggire all’antidoping; il 40 per cento dei giovani dilettanti si dichiara disposto a doparsi per vincere.

Se questo è lo sport “palestra di vita”, da esibire nell’Anno Europeo dell’educazione attraverso lo sport, c’è di che andare fieri.

Che in una simile società  "educazione" sia una parola grossa è fuor di dubbio. C'è da augurarsi che sopravvivano un altro sport, un' altra vita, quella di chi fa sport pulito per il gusto di giocare, di sfidarsi, di vincere e magari anche apparire (poco se non gioca a calcio) senza barare.

Si spera che facciano ancora parte di questo modo sano di fare sport: la sfrontatezza atletica di Giuseppe GibiIisco, che va a vincere i Mondiali di salto con l'asta superandosi proprio nella gara più importante; la "fuga" in Australia di Massimiliano Rosolino che si sottrae a una comoda ubriacatura mediatica, perché «il mio mestiere è nuotare e per quello serve concentrazione»; la fatica di Stefano Basalini, oro nel singolo pesi leggeri di canottaggio, ai Mondiali di Milano senza quasi Tv; le 100 medaglie olimpiche di una teoria infinita di schermidori, per cui una sola bravata fa più notizia di mille vittorie.

A questa realtà, fatta di singoli, più che di istituzioni e di proclami, fa appello, a proposito di educazione, Pietro Trabucchi, psicologo molto concreto e per niente incline a una visione romantica o ingenua dello sport e della vita.

«Sperare di ripulire lo sport dal doping per via istituzionale», spiega, «è un'illusione. La società rema contro: ti insegna che se non vinci, se non ti fai vedere, non sei nessuno. Gli interessi sono altissimi: nessuno è davvero disposto a metterli in gioco».

E allora? Quale speranza di uscire da questa spirale diabolica? «Costruire sull'individuo, partendo dai genitori, dagli allenatori dei ragazzini. A loro tocca insegnare che lo sport è gioco, nel senso di istinto naturale dell'animale uomo, che é sfida prima di tutto a sé stessi; che il divertimento sta nel miglioramento delle proprie capacità e che i soldi e la fama, se mai vengono, vengono dopo»

Al padre che incita il figlio dicendo: "Devi vincere per far contento papà" (insinuandogli il dubbio che la misura dell'amore che merita sia direttamente proporzionale ai risultati), Trabucchi somministrerebbe volentieri una serie di pedate ben assestate nel posteriore. Quel genitore trasferisce sul bambino le proprie frustrazioni, caricandolo di aspettative eccessive, facendo leva su motivazioni tutte esterne, pronte a sgonfiarsi alla prima

difficoltà. Ci sono in questo caso i presupposti per la crescita di una persona insicura, disposta a tutto pur di non essere sconfitta. «Lasciate», suggerisce Trabucchi «che i vostri figli siano liberi di perdere: gli errori sono necessari all’indipendenza. Insegnate loro che un insuccesso non è la fine dell’autostima, ma un’opportunità insostituibile per trovare nuovi stimoli e nuove esperienze».