L'Incendio   di Dania

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   “ Nonno, perché non si possono bruciare le stoppie nel campo? Perché la Polizia Municipale lo ha vietato? Io ho visto che nell’orto, dove in primavera hai bruciato i rami della potatura, l’insalata è cresciuta più in fretta. Perché allora?“

   “ Bravo nipote! Sono orgoglioso di vedere come t’interessi fin d’ora a quello che senti e vedi intorno a te”.

- E’ vietato accendere fuochi in questa stagione perché fa caldo; non piove da tanto; il terreno scotta (prova a toccarlo, sentirai…) e intorno è tutto arido e secco: tu accendi una piccola fiamma e credi di poterla controllare e contenere, invece basta un alito di vento per alimentarla e far volar via le faville che, cadendo, ne possono accendere un’altra subito più in là e un’altra più lontano, e poi ancora e ancora, tanto che il tuo fuocherello diventa subito un incendio famelico che, procedendo a velocità incredibile, divora tutto quanto incontra, e a te non resta che la voce per chiedere aiuto, se prima il fumo non ti ha inebetito e la paura paralizzato, tanto da lasciar avvolgere dalle fiamme anche i tuoi abiti, anche il tuo corpo… Paola, Dio mio! … Paola! … -

Il bimbo capì che per il nonno si erano mosse le “ali del tempo”, che stava rivivendo un lontano periodo della sua vita. Gli sedette al fianco ed attese in silenzio, lui che solitamente era irrequieto e impaziente.

Dopo una pausa che pareva non dovesse finire mai, il nonno iniziò a parlare, o meglio, a pensare ad alta voce, dimentico della presenza del piccolo.

 … Paola: mi sembra di rivederla arrivare, allegra e disinvolta, il primo giorno di scuola e fermarsi a salutare, con evidente sincera cordialità, uno degli studenti che l’anno precedente aveva frequentato il corso di alfabetizzazione. “Quale immagine di disponibilità e di libertà”, dissi fra me, “spero di poter far parte della sua sezione!” Fui accontentato. Me la ritrovai davanti per tanto tempo, sorridente, aperta, sempre pronta a donare informazioni e cultura, di cui era indubbiamente ricca.  Arrivava ogni giorno coi libri in mano e al braccio la sacca da ginnastica con la racchetta da tennis sporgente e una copia de’ “Il Manifesto” che faceva capolino dalla tasca…

   “ Scusa Rosario, il nonno s’era perso tra i ricordi. Ho lavorato a Milano, tanto tempo fa. Te l’ho raccontato più volte, non è vero? ”

   “ Sì, nonno, e mi hai pure promesso che mi avresti portato a vedere dove, una volta cresciuto: non sono ancora grande abbastanza? “

   “ Ho lavorato all’INNOCENTI dove si fabbricava prima la “Lambretta” e poi quell’auto piccolina chiamata “Mini”, la conosci? Sì? “

- Pensavo di poterti portare un giorno, invece un compaesano, di ritorno da quella città, m’ha riferito che la fabbrica è stata smantellata e che in quella vasta area dove sorgeva, proprio là, ora stanno costruendo una zona residenziale nominata PARCO GRANDE.  Di tutti gli edifici di cui si componeva la fabbrica, non sono rimaste in piedi che le due palazzine coi portoni d’entrata. Sempre che non decidano di buttar giù anche quelle! -

- Non ero il solo del Sud a lavorare là, anzi, oserei dire, i meridionali rappresentavano una maggioranza tra gli operai,  non certo tra gli impiegati e tantomeno tra i dirigenti. (Ecco perché ho voluto che tuo padre continuasse gli studi! Ecco perché sono sempre felice quando mi mostri i tuoi bei risultati scolastici!) Cognomi come Lapietra, Lamonaca, Di Gregorio, Zirpolo, Sanfilippo, Russo, Cirillo, Verderame, Mannone, Miscioscia, Lopresti, li sentivi scandire da ogni parte.

Tanti di noi, a malapena, sapevano leggere e scrivere. Alla catena di montaggio non era necessario avere destrezza coi libri: bastava imparare bene una sequenza di movimenti meccanici, ritmati, da migliorare fino ad arrivare a una velocità costante e nessuno avrebbe chiesto altro, se non una velocità più frenetica, per poter accelerare il movimento dei macchinari e produrre, se possibile, ancora di più. -

- Venimmo informati dai Sindacati sulla possibilità di frequentare le famose “150 Ore” di scuola, pagate dall’azienda, per poter conseguire il diploma di terza media, divenuto indispensabile per ottenere un qualsiasi miglioramento, un qualsiasi passaggio di categoria o per poter iniziare un’attività in proprio.  Ci fu una corsa frenetica alla richiesta d’autorizzazione: promozione o non promozione, chi avrebbe rinunciato ad uscire dalla fabbrica per ben quattro pomeriggi alla settimana senza decurtazioni nella busta paga? Non era già quello un buon vantaggio? -

   “ Andavamo alla… vediamo, te lo ricordi il nome della mia scuola? “

   “ Si, nonno: andavi alla Paolo Pini “.

   “Già, all’Ospedale Neuro-psichiatrico!  Andavo alla “Pini Bertolazzi”. Ho una cartina di Milano; aspetta…guarda un po’ qua:

- Qui sta Pieve Emanuele, dove abitano alcuni nostri compaesani, vedi? Segui il mio dito: entriamo in tangenziale Ovest dal casello Vigentino, proseguiamo  sulla tangenziale Est  fino all’uscita Rubattino: qui, proprio ai piedi della rampa, dall’altra parte della strada, sorgeva la fabbrica “Innocenti”.

- Attento: proseguiamo e, in via Pitteri giriamo a destra, percorriamo via Conte Rosso fino alla piazza Rimembranze di Lambrate, prendiamo la via Muzio Scevola, che termina sulla via Pini che a sua volta fa angolo con via Bertolazzi: ecco, la scuola sorge qua in mezzo. Ci sono stati dei cambiamenti di nome e di programmi, ma, mi hanno detto, l’edificio fa ancora bella mostra di sé. ( Ora si chiama “Libera scuola Rudolf Steiner”) -

 

- Avresti dovuto vederci, Rosario, noi operai: permesso in mano, iniziammo a frequentare la scuola con l’aria di chi si concedeva una vacanza, ma ci volle poco perché tutti ci accorgessimo di quanto lo studiare fosse faticoso.  I Professori, tra i quali Paola, dovettero, una volta di più, fare i conti con il problema più grande: noi corsisti eravamo dei pessimi studenti, non perché non volessimo imparare, ma perché non volevamo ammettere di non sapere: ne eravamo assolutamente incapaci! Ridevamo quando venivano proposti dei semplici problemi, che, tuttavia non sapevamo risolvere. Non parliamo poi del leggere e dello spiegare…-

- Nessuno di noi era “figlio di papà”, tutti avevamo dovuto rimboccarci le maniche fin da piccoli per procurarci da vivere e dare un aiuto in famiglia. Tutti avevamo imparato da quella scuola che è la vita. E dopo essere stati costretti a crescere in fretta, lavorando tanto lontano da casa, ci vedevamo ora trattati come bambini delle elementari. Culturalmente lo eravamo, sapevamo di esserlo, ma quale difficoltà il doverlo ammettere! Rosario mio, non hai idea quanto fosse difficile! -

- Si verificavano momenti di grande tensione nelle diverse aule. Più di una volta sono stato chiamato a far da moderatore, da paciere, perché i meridionali si fidavano di me e mi ascoltavano. Forse solo perché si erano accorti che io sapevo leggere e, cosa grandiosa, che sapevo far uso del dizionario! -

- I professori erano visti dai miei compagni di scuola come i “padroni” in fabbrica. Eppure era evidente che queste persone stavano dalla nostra parte: avevano preparato meticolosamente i programmi di studio, facendo in modo che ogni materia riconducesse ai nostri problemi di tutti i giorni per poterli analizzare insieme. Si parlava dell’Unità d’Italia voluta dalla Borghesia per costruire un mercato unico nazionale; delle promesse di Garibaldi di affidare la terra ai contadini che la lavoravano; del divario economico creato politicamente in modo da poter industrializzare il Nord e mantenere nel Mezzogiorno un vivaio di mano d’opera a basso costo; dello Statuto dei Lavoratori; dello stress e di tutti i disturbi psicologici causati dal lavoro alla catena di montaggio e dei possibili rimedi; del processo di produzione, affinché ognuno potesse prendere coscienza del proprio ruolo in questo contesto. -

- Era altrettanto evidente che non si risparmiavano, anzi, lavoravano più del dovuto per darci il massimo, utilizzando al meglio ogni minuto, che sapevano prezioso, perché per quasi tutti noi non si sarebbe potuta ripetere l’opportunità.

Eppure questo loro impegno sarebbe stato capito dagli studenti, paradossalmente, alla fine del corso, anzi, mesi dopo, all’inizio del nuovo ciclo scolastico. Ognuno di noi, infatti, nei primi giorni di scuola si era fatto carico di portare saluti e ringraziamenti di qualche ex allievo. I professori gradivano: era comunque una soddisfazione.  -

- Sì, erano delle brave persone i nostri professori. Mi piacevano tutti, ma con Paola il rapporto era stato più intenso, più stimolante: lei sapeva tutto sul mondo del lavoro e ne avrebbe discusso all’infinito.  Spronava all’informazione, perché desiderava che ogni operaio fosse cosciente delle proprie capacità e dei propri diritti. La sua era una voce che si poneva, con coraggio ed entusiasmo, a fianco degli elementi più deboli, del ramo più debole, della classe operaia. -

   “ L’hai rivista, nonno, dopo la fine della scuola? “

   “ No. Non facevo che dirmi: “Devo passare di là un giorno!” Invece, non era mai l’occasione giusta, così quel giorno non è mai arrivato! No. Non l’ho più incontrata…”

…vorrei chiudere così il mio raccontare, caro Rosario, ma essendo il nonno passato di palo in frasca so che ti resterebbe il pensiero che, forse, si sta facendo un po’ troppo vecchio. Solo per questo voglio raccontare fino in fondo... non farci caso se vedrai i miei occhi farsi lucidi…

- E’ duro il lavoro di tutti gli insegnanti seri. Per quelli delle 150 Ore, più duro ancora.  C’era di meglio per loro, dopo un anno scolastico come quello che t’ho descritto, perché tutti così erano, sognare una bella vacanza al mare? -

- Un’estate, non chiedermi di quale anno, perché non ho ritrovato il ritaglio di giornale, Paola ha proprio scelto il mare, quello della Sardegna, per la sua vacanza rigeneratrice. Viaggiava su di un fuoristrada con un amico, quando un incendio ha sbarrato loro la strada, li ha circondati terrorizzandoli al punto che, per sfuggirgli, decisero di buttarsi in mare dalla scogliera.

- Ha fatto loro più male il fuoco o hanno fatto di peggio gli scogli? Non te lo so dire. So solo che questi due elementi sono stati complici nel privare Paola Cacciari, giovane professoressa, ed il suo altrettanto giovane amico, della cosa più preziosa: la vita. -

- Vedi Rosario? Il fuoco ha costretto, in questo caso, due persone a prendere la tremenda decisione di buttarsi a mare, ma non si era acceso da solo.

- Gli scogli stavano là da tempo immemorabile a lasciarsi lambire dall’acqua: da soli non avrebbero potuto far altro.

- La mano che ha attizzato quel fuoco, invece, apparteneva all’uomo: lui, solo lui, usando la sua intelligenza, avrebbe potuto prevedere e, con un poco di prudenza, evitare una simile tragedia. -

- Questa dolorosa storia non è che una fra le tante: ogni incendio ha dettato la sua.  I fuochi vengono spenti, ma il bruciore per le tragedie continua a far male per tanto, tanto tempo. -

   “ Hai capito ora, nipote mio, perché non si devono accendere fuochi?” “ Hai capito perché si devono rispettare le ordinanze delle autorità competenti? “

   “ Ho capito. Si, nonno. Ho capito “.