Solo l’amore conosce. Riflessioni su questo tempo di virus.

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Arriva un momento in cui viene allo scoperto quello che siamo, in cui viene messo sotto esame ciò su cui poggia la nostra vita… ciò a cui siamo realmente attaccati

Nei tanti dialoghi avuti (a distanza) con amici e conoscenti, mi è parso di scorgere come denominatore comune di ogni seria esperienza umana – in questi momenti nuovi e dolorosi – l’ammissione di una fragilità e di un’impotenza.

Siamo esseri umani e avvertire un contraccolpo (positivo o negativo) è perfettamente naturale, ma subirlo passivamente non spiega le cose, non soddisfa fino in fondo. Lascia sempre in sospeso qualcosa.
Che ci sia qualcos’altro lo si vede nei gesti cosiddetti “eroici” di tante persone che – implicate in prima linea nella lotta contro questo virus – danno di più di quello che è indicato sul loro contratto di lavoro, danno di più in termini di attenzione, danno di più in termini di sacrificio. Ecco: danno di più.
Eppure questo “dare di più” non soffoca, anzi: fa respirare, fa essere. Non saresti te stesso se non lo facessi, non potresti più guardarti allo specchio se ti tirassi indietro. Questo non è un sentimento che fa sospirare, ma si tratta di un giudizio che trascina tutta la persona.
Allora scoprirsi fragili e impotenti è la vera forza: si affronta qualcosa di inaspettato e invece di smarrirsi ci si ritrova, scopri il tuo vero volto. Chi ama può capire il livello della questione.
E già, perché spesso viene considerata realtà solo l’ambito in cui si vive e si opera, si misura l’impegno con la vita in base al numero di cose da fare e di progetti da realizzare: siamo il progetto che abbiamo in mente. Dimenticando che le cose si fanno “per” qualcuno, che si vive “per” qualcuno. Non si vive per se stessi e basta.
Arriva un momento in cui viene allo scoperto quello che siamo, in cui viene messo sotto esame ciò su cui poggia la nostra vita, quello su cui abbiamo scommesso; ciò a cui siamo realmente attaccati.
È interessante il contributo offerto dal filosofo e psicanalista Umberto Galimberti, che scrive su Repubblica:“Nella condizione insolita in cui ci veniamo a trovare per effetto della sospensione delle nostre attività quotidiane, in questo stato di spaesamento non è il caso che vi rivolgiate alla vostra interiorità, che di solito trascurate, per sapere chi siete? Che cosa fate al mondo? Che senso ha la vostra vita? Quante parole scambiate con i vostri bambini o adolescenti al di là di limitarvi a chiedere loro come vanno a scuola? Quanti sguardi accoglienti rivolgete al vostro compagno o alla vostra compagna? Quanta affettività circola nella vostra casa? Queste riflessioni sarebbero davvero un passo avanti per essere davvero uomini, perché vivere a propria insaputa non è esattamente il massimo per la propria autorealizzazione e per trovare un senso all’esistenza”.
È lo spostamento dalla nota frase “andrà tutto bene” a “va tutto bene ora”, che ci costringe a mettere a fuoco che cosa va bene “adesso” che si è nella tempesta.
E così questo virus ci ha colto disarmati, questa realtà è entrata senza chiedere permesso.
Abbiamo un’indomabile necessità di capire il perché delle cose, di ragioni esaustive. Da dove cominciare?
Parafrasando il poeta Eliot:“Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”.
Il punto di partenza è ciascuno noi. Si parte sempre da sé. “Ed io che sono?” si chiedeva Leopardi.
Si può vivere a livello “istintivo”, “animalesco”; guaire o scodinzolare, lamentarsi o sorridere, a seconda di come vanno le cose. E basta. Ma è una posizione che dura poco, è sufficiente meno di un virus a farla crollare.
L’alternativa è guardare e domandarsi come questi fatti cambiano la nostra vita in termini di atti e di pensiero: le cose che accadono indicano una strada, si è disponibili a intraprendere quest’avventura?
Il primo segno di questa vittoria umana è la riscoperta di ciò che è fondamentale per la propria vita, senza il quale io non sarei veramente io. Si tratta di riconoscere una presenza che fa respirare anche nella tempesta, che non annulla le difficoltà della vita, ma permette di “essere” e di non avere paura.
La vera vita è proprio questa lotta, questo impegno, questa avventura di conoscenza.
Siamo tutti chiamati a questo lavoro di vitale importanza perché – innanzitutto – quello che sta accadendo non sia, tra qualche tempo, qualcosa soltanto da dimenticare.
E, in secondo luogo, affinché la realtà non ci trovi nuovamente disarmati la prossima volta che entrerà a gamba tesa, con qualsiasi altra faccia si presenterà.
 
Francesco Bogani

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